di Giulia De Maio
Il sogno di appendere la maglia rosa a fianco a quella gialla sulle pareti di casa è rimandato. Giulio Ciccone voleva puntare alla classifica generale del Giro d’Italia ma un avvicinamento da incubo gli ha impedito di poter essere della partita. Il crollo sul “suo” Blockhaus ha messo in evidenza una preparazione tutt’altro che impeccabile e l’ha riportato con i piedi per terra. Nonostante il suo carattere combattivo, il podio finale era irraggiungibile. A non far finire il morale sotto terra all’abruzzese della Trek Segafredo è arrivata la fuga riscatto di Cogne, che gli ha regalato un successo di tappa di cui aveva proprio bisogno. All’attacco con altri 27 corridori sul primo Gpm di giornata, sull’ultimo stacca tutti per godersi l’apoteosi, lacrime di gioia incluse. Nell’edizione 105 Cicco è tornato ad alzare le braccia come non gli capitava dal 16 febbraio 2020 al Laigueglia, vinto in maglia azzurra, e ha servito il tris di successi di tappa al Giro. Ora nel mirino ha il Tour de France, la Grande Boucle che negli anni 2000 ha visto solo cinque italiani vestire il simbolo del primato: Elli, Nocentini, Nibali, Aru e… Ciccone.
Il traguardo in salita di Cogne, che celebrava i 100 anni del Parco del Gran Paradiso, va a fare compagnia a quelli di Sestola 2016 e Ponte di Legno 2019.
«Questa è la vittoria più bella. Ci voleva. È stata una bella sofferenza perché arrivata dopo un periodo molto difficile. La prima l’ho colta quando avevo 21 anni, al debutto al Giro, fu una sorpresa. La seconda fu una tappa epica, col Mortirolo, ma era nell’aria, andavo forte. Quell’anno non a caso vinsi anche la classifica riservata agli scalatori (e poco tempo dopo vestì la maglia gialla al Tour de France per due giorni, ndr). Questa ha un valore in più perché mi ha sbloccato dopo tanti mesi. La considero un nuovo inizio. Mi ha tolto un peso enorme. Mi ha fatto rinascere. Mi ha regalato un mix di emozioni contrastanti. La più forte è stata la gratitudine verso chi mi è stato vicino nei momenti più bui. Questa vittoria è per loro».
Hai avuto il tempo di chiamare più volte l’applauso del pubblico come una rockstar consumata prima di lanciare al cielo gli occhiali, ormai il tuo marchio di fabbrica.
«In realtà è nato per caso, perché mi premevano sulla testa... I fans al Giro sono davvero calorosi, volevo regalare loro una gioia. Mi è dispiaciuto non aver ben figurato in Abruzzo, ma l’affetto che mi hanno dimostrato i tifosi è stato la mia forza per lasciare il segno alla prima occasione utile. Negli ultimi chilometri dall’ammiraglia mi aggiornavano sui distacchi e mi raccomandavano di gestirmi per non saltare in aria. A me sono passate per la testa un bel po’ di cose».
Tagliato il traguardo sei scoppiato a piangere.
«Vincere è difficilissimo, confermarsi di più e non è stato semplice riuscirci dopo tante aspettative. Ho vissuto la giornata di Cogne come una liberazione. Mi sono sentito di nuovo il vero Giulio Ciccone. Quello che quando sta bene attacca. Che quando la gamba gli dice di andare, va. Questo successo deve essere una svolta. Molti hanno detto che mi dovevo sbloccare di testa, ma non era questo il punto. Ero competitivo, però non riuscivo a dimostrarlo. Ho inseguito per colpa di vari problemi fisici. Nell’avvicinamento al Giro mi è successo di tutto: mi sono ammalato di Covid per la seconda volta e poi mi sono preso la bronchite, con febbre alta e antibiotici per 15 giorni. Ho dovuto rinunciare a correre la Freccia Vallone e la Liegi-Bastogne-Liegi».
Pochi giorni prima del successo avevi ricevuto un videomessaggio di incoraggiamento da Francesco Totti, impegnato a Pescara in un torneo di padel.
«Ha portato bene. Chiaramente è stata una sorpresa graditissima. Mi ha detto: “Ciao bello. Ora devi vincere una tappa. Mica solo una… Mi raccomando”. E se il capitano ordina, bisogna obbedire».
Cos’hai cantato per festeggiare?
«Sul bus della squadra ultimamente avevo intonato Don Raffaè di Fabrizio De Andrè. Visto che ha portato bene, insisterò».
Sul Blockhaus cosa avevi provato?
«Negli allenamenti più duri pensavo a quella tappa e me l’ero immaginata in tutt’altro modo. Visto l’avvicinamento al Giro, l’avevo messo un po’ in conto, ma davanti alla mia gente, sulla montagna di casa, è stata una mazzata. Ha reso tutto più complicato e le critiche più dolorose. Ne ho sentite e lette tante: “Ciccone è un fuoco di paglia”. “Ciccone è finito”. Non ho problemi ad accettare le critiche. Un po’ come nel calcio: c’è chi tifa Milan, chi Inter, chi Juve. Ma ultimamente si era un po’ esagerato. Si gonfiavano le aspettative, ma io ho sempre tenuto un profilo basso. Mi sono aggrappato alle cose fondamentali, a chi non ha mai smesso di credere in me. Ho spesso fatto i conti con dei fattori che non ho potuto controllare. Però ho sempre fatto sul serio. La dedica è per mamma e papà, per il mio amico fraterno Marco e per la mia ragazza Annabruna che hanno saputo starmi vicino nei giorni più difficili».
Mamma Silvana (alle prese con il cancro, ndr) sta meglio?
«Per fortuna sì, è una vera lottatrice. Negli ultimi anni la più grande lezione che la vita mi ha dato è che non bisogna perdersi dietro a cavolate, a persone che ti stanno vicino solo per interesse o curarsi di coloro che hanno una doppia faccia. Il tempo più prezioso va speso con le persone che ti amano davvero per quello che sei».
Vedere il tuo compagno Lopez in rosa ha reso la crisi più dura da elaborare?
«Mentalmente sì, ma Juanpe è più di un amico. Abbiamo trascorso un mese insieme ad allenarci a Sierra Nevada e, alla fine, avere avuto la maglia rosa in squadra ha portato allegria ed entusiasmo. Nella sua spensieratezza ho rivisto il Giulio Ciccone del 2019, quello che conquistava la maglia azzurra al Giro e che vestiva la gialla al Tour de France».
Cosa ti porti a casa da questa edizione?
«Il mio rapporto con il Giro d’Italia è d’amore e odio. Mi ha dato tantissimo, le gioie più grandi, ma anche le delusioni più cocenti. Resta la mia corsa preferita perchè si svolge sulle strade del mio Paese e per i tifosi. La mia idea fissa è di vincere una tappa in Abruzzo. Finchè non succederà non smetterò di provarci».
Al Tour de France con che ambizioni andrai?
«Prima di pensare alla Grande Boucle voglio passare un po’ di tempo in famiglia, con i miei cari, e con Pimpi, l’ultimo arrivato in famiglia, un barboncino che ci ha rubato il cuore. Ricaricate le pile ritornerò a focalizzarmi sul secondo grande giro dell’anno. L’idea fin dallo scorso inverno era di provare a curare la classifica alla corsa rosa e puntare alle tappe alla Grande Boucle, come fatto nel 2019, per poi ambire a un finale di stagione da protagonista nelle corse in Italia».
Tornerai ai Giro per...
«Dare il meglio di me. Fino a qualche anno fa mi consideravo un atleta giovane che doveva ancora crescere, adesso sono nella fase in cui bisogna prendersi le responsabilità. Sono cresciuto tanto sia a livello fisico, che tattico e mentale ma sono convinto di avere ancora margine. La pressione che fa più la differenza è quella che mi metto da solo. Con la Trek Segafredo abbiamo un progetto chiaro fino al 2024. Resto convinto che, per fare una buona classifica in un grande giro, non mi manchi niente».
Quindi continuerai a inseguire la classifica generale?
«Nel 2021 sia al Giro che alla Vuelta ho dimostrato di poter lottare fino a poche tappe dalla fine. Molta gente in passato mi ha paragonato a Nibali: è una responsabilità grande. Io e Vincenzo siamo persone diverse, per testa e caratteristiche. Lui è un campione che ha vinto tutto e sarà strano dalla prossima stagione non averlo in gruppo. Io non so se raggiungerò, anche solo in parte, quello che ha conquistato lui, però so quel che valgo e non mi manca niente per essere competitivo».