Italia nostra
di Cristiano Gatti
No, non è decisamente facile essere italiani, rimanere italiani, fare gli italiani, in questo ciclismo d’oggi. Non lo è da corridore, sappiamo perché, ma se possibile lo è ancora di più da imprenditore. O da promotore d’impresa, come piace dire in certi uffici. Basta guardarci in giro per capire che aria tira: per gli italiani che resistono, che ancora ci provano, è un controvento fortissimo, da attaccarsi ai lampioni.
Certo è più facile inventare ciclismo, creare ciclismo, promuovere ciclismo in Inghilterra, così per dire. Hai uno sponsor galattico come Ineos, prima Sky, ti ritrovi tutti gli anni sul tavolo una trentina di milioni - o giù di lì - e poi devi solo scegliere: prendi questo, prendi quest’altro, scegli solo il meglio, ti attrezzi con la più evoluta tecnologia e via andare. A quel livello, il vero problema è che bisogna per forza centrare certi risultati, anche se dopo tutto non risulta che nessuno sia mai finito impalato per un Tour perso.
Cito questo caso, il più famoso da anni, ma chi rimastica ciclismo non ha bisogno di avere un elenco completo. Ce ne sono diversi altri. Mandare avanti aziende di ciclismo d’alto bordo è ancora un mestiere consigliabile in diverse nazioni del mondo, alcune storiche come il Belgio e la Spagna, altre di nuova generazione come Sudafrica o Australia. Tutto un altro discorso, un discorso da mal di testa, lavorarci sopra in Italia. Tant’è vero che da diverse stagioni ormai tutti aspettano di riavere un top-team tricolore, risulta che Cassani ci stia lavorando sopra nella sua terza vita post-tv e post-ct, senza però che ancora il sogno italiano si concretizzi davvero.
Èper tutto questo che chi insiste merita almeno un pubblico riconoscimento. Se non il cavalierato del lavoro by Mattarella, la considerazione onesta e leale dell’ambiente. Inutile girare attorno e stare sul generale, a me piace fare nomi e cognomi: parlo ovviamente della famiglia Reverberi, di Gianni Savio e dell’ultimo arrivato nella combriccola dei kamikaze, Ivan Basso, cioè a dire i tre invitati al prossimo Giro (sappiamo che ci sarebbe anche il quarto per fare un giro di scopa, Citracca). Dico di loro comprendendo ovviamente anche tutti quelli che si consumano accanto a loro, ma la semplificazione è necessaria. E preciso pure che parlo di persone e squadre completamente italiane, intimamente italiane, nel cuore e nell’anima, senza stare troppo a vedere dove siano le sedi legali e i conti bancari. Altrimenti non ci si capisce più.
Non è vero che il mondo è mosso dall’amore. Anche, per fortuna. Ma purtroppo prima ancora è mosso (male) dall’invidia, un motore che in tutta la storia non è mai entrato in avaria. Logico dunque che a carico dei Basso, dei Savio, dei Reverberi, si possano assommare montoni di ma, se, però. Il punto estremo mi pare quello di chi nemmeno li vorrebbe tra i piedi, i famosi teorici del gigantismo moderno, e basta con le squadrette che tirano a campare, basta con questi organici extrasmall di corridori che intralciano soltanto il gruppo, bisogna arrivare a una cerchia di squadre elite per corse elite, il resto lasciamolo alle sagre paesane. E pazienza se poi in corsa certi giganti ci stanno annoiati e indolenti, mentre i piccoli fanno volare gli stracci. Se vogliamo, non è neanche un’idea così originale, basti pensare che anche nel calcio c’è una potentissima corrente di pensiero, guidata da Agnelli Junior, che lavora da tempo a una SuperLega europea per soli fatturati monstre, e pazienza se poi magari la domenica si perde a Empoli.
Non voglio comunque entrare nel trito discorso delle filosofie pro o contro il ciclismo per soli ricchi. Ha pure stufato, come discorso. Personalmente penso che uno spazio anche ampio, con promozioni dei migliori piccoli, e castighi di retrocessione per i ricchi debosciati, serva sempre a tenere alto il livello dello show. Ma saltiamo avanti. È di loro, dei nostri italiani eroici, che mi preme parlare in questo caso. Diranno gli odiatori seriali che se i Basso, i Reverberi, i Savio vanno avanti nonostante tutto, è perchè comunque conviene e rende denaro. La mia risposta: e vorrei pure vedere che guadagnare con il proprio lavoro fosse peccato. È peccato rubarlo, non sudarlo: si legge mille volte anche nelle sacre scritture. Dunque, se i nostri sopravvissuti riescono anche a vivere - spero bene - della loro impresa, ne sono solo lieto. Anche se poi, a noi, deve interessare il resto: e cioè che grazie a questi temerari, ostacolati in tutti i modi dai tempi e dalla congiuntura economica, ancora resti in piedi qualcosa di nostro. Con la prospettiva, magari, volesse il Cielo, che fra poco riescano pure a crescere per entrare dentro al Rotary.
In ogni caso, basta già quello che stanno facendo. Dal Covid alla guerra, dalle materie prime all’inflazione, ci sono più avversari nell’ufficio contabilità che in corsa. Per non parlare degli ostacoli interni al loro ambiente, sempre più guardato con diffidenza dai grandi investitori. Eppure, tutti i giorni, i Reverberi, i Savio, i Basso d’Italia escono dal letto e non cominciano a piangersi addosso, meditando di mandare tutti al diavolo per aprire una gelateria, ma anzi moltiplicano gli sforzi della fantasia per continuare il sogno. Non vinceranno il Tour domani mattina, magari non vinceranno neanche a Laigueglia o a Larciano, ma ci danno dentro come se il Tour dovessero vincerlo domani mattina. Curano la loro organizzazione, crescono ragazzi, cercano nuovi sponsor. Ci provano. E quando prendono una sberla, il giorno dopo subito ripartono da capo. Tutte attorno hanno le prefiche che sanno solo piangere e strepitare sul ciclismo italiano che ha tirato le cuoia, ma loro con le proprie squadre-simpatia, serie e dignitose, forniscono il migliore esempio di come si possa anche andare continuamente controvento senza perdere il senso dell’orientamento. Come diceva il vecchio Seneca, “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
Per questo, anche se non vinceranno il Tour a breve, dobbiamo essere orgogliosi, senza falsi pudori e senza complessi di inferiorità, della loro resistenza. L’Italia sono loro. L’Italia di oggi. Non sono grandi, ma forse hanno più coraggio e più meriti di quelli che furoreggiavano al tempo delle vacche obese, quando gli sponsor cadevano in casa dalla finestra, o quasi. E comunque, vale sempre la vecchia regola: se c’è chi sa fare di meglio, si faccia avanti. Avanti c’è posto.