di Nicolò Vallone
Chi l’ha detto che una gara 2.1 senza formazioni World Tour, che si svolge in contemporanea col Provenza di Ganna, Viviani, Quintana e Alaphilippe e con l’Oman di Gaviria, Cavendish, Masnada e Hirt, debba necessariamente passare sotto traccia e non stuzzicare il palato degli appassionati di ciclismo? Anzi, per certi versi è proprio la mancanza (sulla carta) di profili di primissima categoria il punto di forza del Tour of Antalya. Permette infatti a quei ProTeam che normalmente sgomitano per un posto al sole di partire coi gradi da favorita e gestire la conseguente pressione. Concede spazi e sprazzi di gloria ai team più abili a sfruttare l’occasione di farsi notare. E ai loro corridori, l’opportunità di cogliere l’attimo giusto per aggiungere un bel risultato al proprio palmarès. In buona sostanza, il Tour of Antalya diventa la vetrina forse più gustosa per il vero cultore della materia che, anziché osservare i “soliti noti”, può scatenarsi nel riconoscere in questo o quell’altro emergente un pupillo da seguire con attenzione. O per il ciclofilo più romantico, che può affezionarsi a un qualche corridore in cerca di rilancio.
Da giovedì 10 a domenica 13 febbraio, il Tour of Antalya 2022 ha mostrato le specialità di questo angolo di Anatolia sull’Egeo, che ci ricorda una versione mediorientale della Sicilia. Un’area che Erdogan sta trasformando nella “Florida della Turchia”: sferzati dal tipico clima mediterraneo, bagnati da un bel mare, e resi ancor più attraenti da prezzi ultracompetitivi rispetto agli standard europei, sono spuntati alberghi di lusso ed eventi sportivi (oltre al ciclismo, si annoverano ad esempio rally, tennis e golf). Promuoversi e consolidarsi sulla mappa internazionale attraverso il turismo e lo sport: un po’ come, al di là del Mar Nero, ha fatto Putin con Sochi.
Restando ad Antalya, è un vento ai limiti dell’annullamento ad accogliere la carovana alla vigilia. Ma come se qualcuno da lassù sapesse che c’è da preservare la competizione, i quattro giorni di gara sono salutati da un meteo più che sereno. Anzi, persino in montagna, dove tutti noi al seguito ci siamo armati di vestiti più pesanti, le temperature si rivelano in realtà più che magnanime. Con un velo di delusione, lo ammettiamo, scopriremo che non si è trattato di disegno divino: attenti esami meteorologici indicano che, negli ultimi dieci anni, qua fa bel tempo la seconda settimana di febbraio e cala la tempesta nella terza. Per cui, dopo edizioni umide e bagnate intorno al venti del mese, per quest’anno (gran ritorno della corsa dopo l’annullamento causa covid del 2021) l’organizzazione ha deciso di anticipare leggermente la collocazione in calendario. Mossa vincente.
A proposito di vincenti, andiamo ora al fatto sportivo. Quattro tappe: la prima (Side-Antalya 144,5 km) e l’ultima (Antalya-Antalya 162 km) per sprinter puri; la seconda (Kemer-Antalya 183,3 km) anch’essa per ruote veloci, ma in grado di reggere i saliscendi iniziali; mentre la terza (Aspendos-Termessos 110,6 km) è quella con arrivo in salita a 876 metri d’altitudine che decide la classifica generale. I 157 atleti di 23 squadre (9 Professional, 13 Continental, nazionale tedesca U23) di cui arriveranno alla fine in 145, transitano tra altopiani e cascatine, aspra vegetazione e antiche rovine, testimonianza del passato ottomano, romano, greco... e ittita; il tutto condito naturalmente da tante bandiere rosse luna-stellate. E al secondo e al quarto giorno tagliano lo stesso traguardo: piazza della Repubblica, portale tra centro storico e moderno di Antalya, salutati dal monumento all’indipendenza turca.
E sul palco di questa piazza, raggiante con indosso la maglia magenta di vincitore del Tour of Antalya e con in mano il trofeo, a celebrare la sua prima gioia da professionista è un semi-carneade nordico di nome Jacob Hindsgaul. Nato il 14 luglio del 2000 in quel di Middelfart, nella stessa regione che ha dato i natali a Kragh Andersen e Honoré, questo ragazzino/ragazzone, secondo al Piccolo Lombardia 2020 dietro a Sweeny e ottavo al Tour de l’Avenir 2021, è l’immagine perfetta della sua squadra. Sponsorizzata dall’omonima catena di pompe di benzina attiva sia in Danimarca che in Norvegia (stato di cui ha la licenza) la Uno X è un team che commistiona corridori norvegesi e danesi.
In piena seconda tappa è arrivata la notizia che il Tour de France non ha concesso alla squadra scandinava la wild card, nonostante il grand départ del 1 luglio sia programmato a Copenhagen. Loro non si mettono a crear polemiche, le dichiarazioni ufficiali parlano di “massimo rispetto per le decisioni” e quando noi stessi, alla partenza della queen stage davanti all’anfiteatro di Aspendos, interpelliamo Jesper Morkov (fratellino di Michael) ai primi passi sulle ammiraglie della Uno X, riceviamo testuale risposta: «Sarebbe stato bellissimo e abbiamo cullato il sogno della Grande Boucle, ma sappiamo comunque di avere già un calendario di prestigio: faremo le grandi classiche del Nord e il Delfinato, non possiamo proprio lamentarci».
La loro “risposta” alla mancata wild card arriva direttamente sulla strada. Quel sabato 12 febbraio Anton Charmig vince la tappa in Oman e Hindsgaul conquista Termessos. Doppietta. Qui nel sud della Turchia avrebbero potuto affidarsi a un ex World Tour come Lasse Hansen (che il giorno prima ha festeggiato i 30 anni con un bell’happy birthday che gli è stato cantato al foglio firme della seconda frazione a Kemer) o al rampante Sindre Kulset, secondo la settimana prima al GP Alanya dietro al nostro Martinelli. Invece lanciano un messaggio eloquente: mandano i due più giovani della squadra, Adne Holter e Jacob Hindsgaul, un norvegese e un danese. E la dominano.
È il manifesto di una mentalità: poco fumo e tanto arrosto, poco microfono e tanta bici, un gap con le altre “big Pro” che continua ad assottigliarsi. Le tappe non si bruciano: sfuma il Tour con la partenza danese? Pazienza!
L’importante è mettere ogni anno i mattoni giusti secondo programma. Come un trionfo all’Antalya pronti via.
Dalla Scandinavia con ragione.
Una prova di forza l’ha fornita pure l’altra big presente in Anatolia: l’Alpecin Fenix. Mentre gli scandinavi assaltavano la generale, la squadra belga lottava con le avversità per far sua la classifica a punti. La prima metà della corsa sembra infatti a una gara a handicap, di quelle in cui devi vincere partendo da uno svantaggio: un format tipico dei videogiochi.
Jakub Mareczko, alla ricerca del World Tour perduto dopo la fine della CCC e l’annata nell’anche lei scomparsa Vini Zabù, perde il primo sprint al photofinish: dopo dieci lunghissimi minuti, il verdetto premia un ottimo Matteo Malucelli. Come se non bastasse, dopo pochi chilometri dallo start la gastroenterite ha costretto Jay Vine al ritiro. L’indomani, di male in peggio: forfait di Anderson e Taminiaux, gli alfieri del coffein shampoo rimangono appena in quattro. Si mettono nelle retrovie, si ricompattano, rimangono in sordina e preparano l’ultima tappa. C’è un colpo di coda da piazzare per prendersi Antalya. C’è da “vendicarsi” sportivamente della sconfitta nella tappa inaugurale.
Detto fatto: a prendersi la scena nell’atto finale è un primattore di nome Mareczko che, ben pilotato dai coprotagonisti Van den Bossche, Dehairs e soprattutto Gaze, mette tra sé e il forlivese non un centimetro, ma un uomo e una bici interi (Arvid de Kleijn della Human Powered Health, nuovo nome della Rally, quinta in classifica generale con Kyle Murphy). È maglia gialla, per un punto. Un punticino quanto mai prezioso per Mareczko, che può ripartire da questo successo e da quelle braccia a indicarsi il petto con orgoglio.
E con la chioma riccia che si sta facendo crescere, chissà che “Kuba” non si appresti a prendere il posto di Sbaragli nello spot che i telespettatori hanno imparato a conoscere in questi anni. Ma quelle sono altre storie.
Insomma, è stato l’Antalya dei “due Jacopi”. Dove a spartirsi le maglie più importanti e confermare i propri gradi sono stati, a conti fatti, i due top team in gara: Alpecin Fenix e Uno X.
E l’Italia? Abbiamo visto che la lotta per la maglia gialla è stato un duello Mareczko-Malucelli. Quello che non abbiamo ancora menzionato è che in classifica generale, a un abbuono di distanza da Hindsgaul, è arrivato secondo un compagno di squadra di Malucelli: l’ex Delko Alessandro Fedeli, chiuso (di sana prepotenza ma regolarmente, va detto) dal ragazzo della Uno X proprio all’ultima curva a destra prima del traguardo in salita di Termessos. Retroscena: in quella terza tappa Fedeli è arrivato fin su in cima con un problema al deragliatore posteriore. In pratica, è riuscito a rimanere coi migliori e perdere solo di un soffio con un rapporto “sbagliato”.
Retroscena bis: non era previsto che fosse lui a partire sulla pendenza decisiva, tra i suoi compagni ci si attendeva magari Rivera. E invece, ecco cosa vuol dire sentirsi sereni e in fiducia.
Questo ci presta il fianco per porre all’attenzione la Gazprom RusVelo, una squadra che possiamo definire a tutti gli effetti italo-russa, di casa sul lago di Garda e zeppa di elementi italici tra corridori e staff. Come ci hanno spiegato lo stesso Malucelli in conferenza stampa post prima tappa e un altro neoacquisto nostrano come Nicola Conci nel numero di tuttoBICI del mese scorso, il mix tra le conoscenze ciclistiche e l’atteggiamento propositivo degli italiani e la serietà e la gestione delle energie dei russi può costituire una ricetta vincente. Anche perché Gazprom ha deciso di ingaggiare tanti atleti che hanno fame di emergere o riscattarsi. Fame come quella di Malucelli nel mettere quella gommina davanti Mareczko nella frazione inaugurale, dopo un’annata complicata tra Covid-19 e prestazioni in volata non all’altezza.
Balza all’occhio che i principali protagonisti italiani ad Antalya sono stati nostri connazionali di squadre straniere. E le strutture che battono bandiera tricolore?
Freddi numeri alla mano, la migliore delle tre Professional è la Drone Hopper Androni, che porta all’ottavo posto generale l’argentino Eduardo Sepulveda, ottimamente supportato da Zardini e Ravanelli nell’ampiamente menzionata tappa di Termessos. La Eolo Kometa e la Bardiani Csf Faizanè si devono accontentare di vedere un paio di corridori (rispettivamente, Bais-Rivi e Martinelli-Marcellusi) pedalare fino ai tornanti finali insieme ai migliori, senza però arrivare a giocarsi la volatina.
E se parliamo delle altre tappe, l’unico podio è griffato Drone Hopper Androni: quello di Filippo Tagliani, terzo nello sprint della seconda frazione. Anche qui Eolo e Bardiani restano mezzo passo indietro, e non vanno oltre un quarto posto: rispettivamente Giovanni Lonardi (che ad Antalya fu persino secondo generale nel 2019 con la Nippo Fantini) nella prima frazione ed Enrico Zanoncello in quella conclusiva alle spalle di Mareczko, De Kleijn e Malucelli.
Adesso vi chiederete: la prima l’ha vinta Malucelli, l’ultima Mareczko, la terza in montagna Hindsgaul... e la seconda tappa? E gli unici team italiani presenti erano i tre Pro?
Rispondiamo in una botta sola. A ben guardare, l’unica italiana ad aver vinto qualcosa al Tour of Antalya 2022 è la “quarta squadra” in gara: la Corratec, neonata Continental toscana generata da una costola della Vini Zabù. A loro dedichiamo un capitolo a parte in questo numero della rivista, qui vi basti registrare che a esultare venerdì 11 febbraio è il 24enne serbo Dusan Rajovic.
Giunti fin qui, non possiamo non completare la rassegna Antalya con una serie di considerazioni in ordine sparso che esulano da vincitori e italianità.
Oltre alla maglia magenta di Hindsgaul e la maglia gialla di Mareczko, in palio c’erano altre due classifiche. Quella arancione degli scalatori se l’è presa con autorevolezza il ceco Daniel Turek, che con la sua Felbermayr Simplon Wels vedremo all’opera al Tour of the Alps.
C’era poi una classifica speciale chiamata Climate Change Awareness, la cui maglia era ovviamente verde. In ogni tappa c’era un traguardo volante, diverso da quelli della classifica a punti, dedicato appunto a tale graduatoria: l’ha fatta sua l’inglese Jacob Scott, che ha provato a contendere l’arancio a Turek, ma avendo appurato di non averne la gamba ha ripiegato sugli “sprint verdi”, controbattendo poi agli attacchi di Edgar Nieto, spagnolo della formazione turca Spor Toto (l’altra squadra locale in gara era la Sakarya).
Parli di Scott, parli della sua squadra: la Wiv SunGod, ex Canyon. Erano i “campioni in carica”, nel senso che avevano vinto ad Antalya nel 2020 con Max Stedman. Quest’ultimo non era presente a difendere il titolo, essendosi appena trasferito dalle nostre parti in MgKVis, ma gli uomini in blu hanno mostrato di essere adeguatamente agguerriti. Di Scott in verde si è detto. Benjamin Perry ha chiuso settimo in classifica generale e nelle volate si è sempre fatto vedere il velocista Matthew Gibson, terzo incomodo nella lotta alla maglia gialla di Mareczko e Malucelli, nella quale non ha centrato il bersaglio grosso ma è stato più costante dei rivali italiani: sesto nella prima tappa, secondo nella seconda in mezzo a Rajovic e Tagliani, quinto nell’ultima appena dietro Zanoncello.
A proposito di terzi incomodi. A reclamare una fetta di riflettori all’ombra di Uno X e Alpecin, l’altra belga Bingoal. Terza nella tappa iniziale, che di fatto ha presentato due photofinish a pochi metri di distanza: mentre Malucelli-Mareczko decideva la vittoria, l’estone Karl Patrick Lauk beffava anch’egli per centimetri il buon Lonardi. Non paga, la Bingoal collocava al terzo posto nella terza tappa, e dunque nella classifica generale, a ruota di Hindsgaul e Fedeli, il lussemburghese Luc Wirtgen.
Non solo. Conoscete per caso Bas Tietema, ciclista dilettante olandese divenuto una celebrità sui social col suo divertente format Tour de Tietema, in cui segue varie corse, alcuni grandi giri compresi, mostrandone il dietro le quinte e il lato umano dei corridori? Beh, la Bingoal l’ha ingaggiato e fatto esordire proprio ad Antalya! Tietema ha portato a termine la corsa senza infamia e senza lode, ma i suoi numerosi fans hanno monopolizzato coi loro commenti le trasmissioni ufficiali delle tappe su Youtube. Sarà interessante vedere come se la caverà alla prima stagione da Pro.
Parentesi. Abbiamo citato almeno una volta tutte le Professional in gara, tranne una: la Novo Nordisk, interamente composta da atleti diabetici. Chiaramente un bacino d’utenza molto ristretto da cui attingere, difficile pretendere risultati come testimonia l’ultimo posto nelle graduatorie UCI di categoria. L’importante è il messaggio di cui sono portatori. Chiusa parentesi.
Da un olandese all’altro, da Tietema a Meindert Weulink. Il classe ’99 della Continental ABLOC su a Termessos si guadagna il quattordicesimo posto in classifica generale, l’indomani nell’ultima tappa va in fuga, dapprima con due compagni d’avventura poi in solitaria, arrivando ad accumulare fino a 3 minuti e 40 di vantaggio sul gruppo prima di essere ripreso come da copione. Elemento interessante.
Classifica a squadre. La Drone Hopper Androni chiude seconda, per soli 5 secondi dietro la malese Terengganu (a noi nota soprattutto quando si parla di Tour de Langkawi) che qui nel sud della Turchia riesce a piazzare ben tre corridori a cavallo della decima piazza. Uno è l’ucraino Anatolii Budiak, l’altro è decisamente più esotico: il mongolo Jambaljamts Sainbayar, che a dicembre ha inaugurato l’Asia Tour vincendo il Giro di Thailandia. Infine, Metkel Eyob.
Già, un eritreo. Sono addirittura due i nativi di Asmara a centrare la top ten generale: oltre a Eyob della Terengganu c’è Henok Mulubrhan della tedesca Bike Aid (stessa squadra di Halil Dogan, campione nazionale a cronometro Under 23, che col suo ventisettesimo posto in classifica risulta il miglior atleta turco in questo Antalya). Il boom dell’Eritrea non fa più notizia, semmai desta parecchia curiosità.
Quindi, a margine della corsa, abbiamo intervistato Mulubrhan per il nostro sito (articolo pubblicato il 17 febbraio su tuttobiciweb) per fargli quelle domande che un po’ tutti vorremmo rivolgere a un corridore del Paese cornafricano.
Ne è uscita fuori una denuncia a un sistema che secondo lui pone bastoni tra le ruote ai talenti africani che vogliono accedere ai livelli più alti di questo sport. Oltre al rammarico per la chiusura della Qhubeka WorldTour che gli ha impedito il grande salto con un contratto biennale già pronto. Fino a sfiorare il tema del colonialismo italiano...
Sì, cari lettori. In una 2.1 senza World Tour incastonata verso metà febbraio c’è tanto, tanto da scoprire.