di Nicolò Vallone
A volte, per provare a fare un passo avanti, è necessario farne mezzo indietro. Nicola Conci, lanciato ventenne nel World Tour quattro anni fa dalla Trek Segafredo dopo una bella parabola giovanile tra Team LVF Abici e Zalf Euromobil Fior, adesso ha deciso di scendere di categoria. Il talento trentino, infatti, a digiuno di vittorie in questo quadriennio alla corte di Guercilena, per il 2022 è passato alla Gazprom RusVelo. Un team Professional che, senza perdere la sua anima russa, stagione dopo stagione parla sempre più italiano. Anche perché lì dentro c’è chi l’italiano lo mastica parecchio, uno su tutti il direttore sportivo Dmitri Konychev, ex vincitore di tappa in tutti i grandi giri, storico diesse della Katusha prima dell’avventura Gazprom, e padre di quell’Alexander che difende i colori della BikeExchange Jayco e talvolta della Nazionale azzurra.
Nicola, insieme a te sono arrivati in Gazprom RusVelo Carboni, Fedeli, Malucelli e Piccolo, oltre a Rivera che è costaricano ma ciclisticamente legato al nostro Paese. E vi aggiungete ai già presenti Scaroni e Canola...
«Si è creato subito un bel gruppo con tutti loro, e anche con lo spagnolo Jose Manuel Diaz. Coi compagni russi all’inizio c’era la fatica della barriera linguistica, è stato più semplice con lo staff perché anche lì ci sono sempre più italiani in ogni reparto. E dei membri russi dello staff, molti vivono in Italia e parlano la nostra lingua. Konychev? Parla italiano meglio di noi e persino un po’ di veneto! Molto simpatico, fa da tramite tra tutte le lingue».
Tra tutti loro, però, tu sei l’unico proveniente dalla massima categoria: ti senti in un certo senso il leader del gruppo?
«Senza dubbio ci sono aspettative su di me, ma effettueremo le valutazioni strada facendo. Ho notato che, tra noi nuovi arrivati in squadra, siamo tanti in cerca di rilancio dopo annate difficili: Rivera, passato da covid e mononucleosi, anche Piccolo ha avuto problemi fisici... e poi io, che ho avuto un bel daffare con l’arteria iliaca (la stessa di Fabio Aru, ndr) fin dall’approdo nei professionisti. Quest’inverno, dopo l’operazione ad agosto, non ho più accusato fastidi e sto bene. Certo, la paura che possa ripresentarsi c’è, ma ora ho fiducia e voglio vedere se pure in gara starò bene come in allenamento».
In cosa consisteva questo problema?
«L’arteria aveva una piega, un restringimento, e provocava una parestesia della gamba, che mi si addormentava sotto sforzo. Nel 2019 feci alcune visite che mostrarono come il muscolo psoas andasse a schiacciare l’arteria. Mi sono rivolto all’osteopatia, che comunque pratico tutt’ora, e ho lavorato molto per tenere lo psoas rilassato. Tuttavia il problema è gradualmente peggiorato nei due anni successivi...».
... e ha inevitabilmente condizionato la tua avventura in Trek Segafredo.
«Il salto tra i pro dopo soli due anni da Under 23 l’avevo sentito a prescindere, ho fatto fatica come penso sia normale. Nella seconda stagione però mi hanno portato al Giro d’Italia e la mia crescita si è vista: con avversari di primo livello, ho centrato fughe non semplici e aiutato tanto i capitani, alla corsa rosa come in tante altre occasioni. In quel Giro siamo arrivati quinti con Mollema e abbiamo tenuto la maglia azzurra dall’inizio alla fine con Brambilla e soprattutto con Ciccone, che ha vinto la classifica scalatori e una tappa. Poi è arrivato Nibali, ed è stato bellissimo vivere da vicino in corse e ritiri un campione del suo calibro, un punto di riferimento che fino a poco tempo prima guardavo in tv. Nel mentre però io stavo in un limbo, mi chiedevo cosa fare per quest’arteria, finché l’estate scorsa ho deciso di operarmi».
Quando è entrata in scena la Gazprom RusVelo?
«Poco prima dell’intervento, il mio procuratore Maurizio Fondriest ha convinto Dmitri Sedoun (direttore sportivo del team russo, ex Astana, ndr) spiegandogli la situazione, il problema alla gamba che mi aveva tolto qualcosina in Trek Segafredo, e che dopo l’operazione sarei potuto ripartire per far meglio».
Avevi altre offerte?
«Sì, ci siamo sentiti con Ivan Basso, che mi aveva cercato anche nel 2018, quando la sua squadra era ancora una Continental e si chiamava Polartec Kometa. All’epoca dissi di no perché ricevetti la chiamata della Trek Segafredo nel World Tour, mentre stavolta abbiamo detto a Ivan che sceglievamo Gazprom: sono entrambi progetti ambiziosi, ma quello russo ha qualche anno di esperienza in più. Senza nulla togliere alla Eolo Kometa che sta andando alla grande, ma alla fine abbiamo deciso così e siamo rimasti tutti in ottimi rapporti».
Almeno per quest’anno, quindi, ti precludi la possibilità di partecipare al Giro.
«Faremo comunque delle belle gare: UAE Tour, Volta Catalunya, Tirreno Adriatico e diverse classiche importanti».
Ecco, come si compone il calendario di una squadra come la vostra?
«In una World Tour è più semplice fare programmi a inizio stagione: in Trek a dicembre avevo già il calendario di tutto l’anno, mentre qui dipende molto dagli inviti e, da dicembre ai primi mesi del nuovo anno, quello che abbozzi in un primo momento può cambiare continuamente».
Aiutaci a conoscere meglio la tua squadra: che ambiente è innanzitutto?
«Come un po’ tutte le Professional oggigiorno, è molto organizzata, si allena e corre praticamente come i top team. Percepisco tanta voglia di far bene, stiamo andando nella giusta direzione. Per corridori come me e per gli emergenti, è l’ideale. I grandissimi nomi sono pochi, se non Zakarin che può aiutarci parecchio».
Com’è andata la preparazione invernale?
«Siamo andati due volte in Spagna, a Calpe: a dicembre faceva molto caldo, eravamo in pantaloncini e maniche corte. A gennaio, al contrario, freddo e pioggia, ma siamo riusciti ad allenarci come si deve».
Noti differenze nel loro approccio rispetto al nostro?
«Non troppe, alla fine il ciclismo europeo è quello che ha più da insegnare agli altri movimenti, da quello americano a quello russo eccetera. Però una cosa l’ho notata: i russi tendono a risparmiare meglio gli sforzi. Noi mediterranei a dicembre partivamo già brillanti mentre loro si allenavano a ritmi più rilassati, per intensificare poi a gennaio. E nell’ultimo ritiro li ho visti pedalare proprio bene».
Come parte il tuo 2022?
«Subito con la Valenciana, dopodiché vado in altura con Carboni, Zakarin e altri: a Tenerife, sul Teide, sono felice di andar lì perché mi hanno sempre detto che è davvero bello. Poi affronterò Tirreno e Catalunya».
Quale corsa hai messo in particolare nel mirino quest’anno?
«Venendo da anni senza trovare la totale soddisfazione, vorrei cercare di far bene a prescindere, magari ben figurando già in queste prime uscite. Ciò detto, qualcosina in più potrebbe darmelo il Tour of the Alps, la gara di casa. E come tutti i corridori italiani, ci tengo a far bene ai campionati italiani, nei quali peraltro mi trovo bene perché in genere si svolgono in una giornata calda come piace a me».
A proposito di casa tua, parli di ciclisti trentini e pensi a Francesco Moser: immagino sia un mito per te e la tua famiglia.
«Importantissimo, ma ricordiamo anche il fratello Aldo: a livello nazionale sarà meno riconosciuto, ma qua da noi sappiamo bene che di Moser ce n’è più di uno! Ma questa è una terra ricca di gente che va forte in bici: oltre ai Moser, menzionerei ad esempio Gilberto Simoni e il già citato Fondriest, che mi ha accudito fin da juniores. Addirittura in Trentino si tiene annualmente la Festa del Ciclismo: si ritrovano insieme i corridori di ieri, di oggi e di domani, si commenta la stagione e si festeggia insieme. Una serata sentitissima, dal 2020 è saltata causa covid e spero possa tornar presto».
Oltre ai grossi nomi che hai citato, aggiungerei un tuo concittadino come Marcello Osler, che vinse una tappa al Giro d’Italia 1975 e poi divenne gregario proprio di Moser.
«Certo, incontrato più volte: veramente una gran persona. A Pergine Valsugana e in tutta la zona conosciamo bene Marcello, è presente a ogni manifestazione come quella appena descritta».
Tornando a te, qual è la corsa “sogno nel cassetto”?
«Me n’ero già reso conto e ho avuto la conferma l’anno scorso: la Liegi-Bastogne-Liegi. C’è qualcosa che mi attira più delle altre, ha dei tratti incredibili come La Redoute, dove sono caduto ai piedi della salita. Di questa monumento mi affascinano la storia e la lunghezza, è tostissima da gestire con tutti quegli strappi: non ha una salita sopra i due chilometri, tra le gare da un giorno è la più dura».
Questa osservazione ci induce una curiosità finale: più duro un percorso con poche “salitone” o uno con tante “salitine”?
«Dipende dalla tipologia di corridore, fatto sta che una gara con poche salite lunghe divide nettamente il gruppo tra fuggitivi, uomini classifica e ruote veloci che si staccano subito per non sprecare energie. Invece una classica fatta di repentini saliscendi, un muro dopo l’altro, in cui devi sostenere sforzi brevi ma numerosi, induce tutti a tenere duro fino all’ultimo e la parte conclusiva di gara esplode: corridori che scappano dappertutto, forze che vengono a mancare... devi reggere finché riesci e sperare di non andare in crisi».