SOFFI AL CUORE. LA STRETTA DI MANO

SOCIETA' | 18/11/2016 | 08:01
Di fronte alle pagine di pubblico e privato encomio riservate a cantanti e musicisti, ci addolora il solo geometrico quadro che la fine di Veronesi ha meritato. Non ci fa velo il rapporto personale, né l'esperienza che ci ha mutato (in meglio?) la lettura delle cose e dei giorni e delle persone, - ce ne spogliamo da medici e pazienti e familiari di pazienti -, ma Umberto Veronesi resta l'immagine simbolo della Medicina italiana al servizio utile della vita altrui, a quotidiano intero. Quel diario che comincia alle sei di mattina e finisce alle 22, quel quotidiano medico che non conosce bene la luce del giorno. A Milano, che non è Napoli, spesso migrando dal buio ad un buio ulteriore.
Lo rivediamo, figura ieratica, il suo passo solo, nel corridoi dell' Istituto Europeo di Oncologia di via Ripamonti. Quante volte, purtroppo o per fortuna nostra, ci siamo passati ed abbiamo atteso.
Noi come una infinità di altri, dell'Italia intera, in attesa. Noi, dove una persona aspettava che un suo caro gli venisse restituito tale, se non migliore... Ecumenicamente grati, perché la malattia è l'unica democrazia, senza il narcisismo autoreferenziale che si addice ad altri contesti.
Lo rivediamo nella forza non retorica di un sorriso, nel dispensare una telefonata non obbligatoria ad una persona anche di sabato mattina, lo rivediamo nel gesto gentilmente forte, in Sala Operatoria, verso una allieva giovane che di un intervento voleva la facile radicalità.
'Togliamo tutto il seno, prof?'. 'Ma perché? Il tolto può essere un maltolto', la sua risposta garbata, aspettando invece a braccia conserte il conforto istologico in tempo reale, per procedere oltre, dopo una quadrantectomia. O invece fermarsi.
Caro amico Veronesi, anche per chi non ha il fiato o il pudore di scrivere più, e non ha lo spazio meritato da figure di ridotta umanità, noi la salutiamo con affetto a nome dei tanti commossi silenzi e le stringiamo ancora la mano come quel pomeriggio di venti anni fa. Quando ci fermammo insieme.


Gian Paolo Porreca, da Il Mattino
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