SARONNI. «La vittoria più bella»

ESCLUSIVO | 23/02/2016 | 07:05
Ha sempre fatto discutere, ha contribuito a dividere l’Ita­lia del ciclismo degli Anni Ot­tanta e l’hanno anche ac­cusato di essere, rispetto all’acerrimo rivale Francesco Moser, meno scenico e più speculativo, diciamo molto più essenziale. Beppe Saronni ha sempre fatto dell’intelligenza tattica la sua cifra stilistica: meno forza più strategia. Co­sa che mandava in bestia lo sceriffo - co­sì veniva chiamato in quegli anni Mo­ser in gruppo - e i suoi innumerevoli seguaci. Sapeva nascondersi Beppe Saronni, ma non avrebbe mai immaginato di doverlo fare an­che nella vi­ta reale, quando un pm di Mantova un giorno di sei anni fa ha deciso di elevarlo agli onori delle cronache con l’accusa tutt’altro che gradevole di essere la mente di un sistema di doping di squadra.
Beppe Saronni non ha mai amato i ri­flettori, neanche quando era una star della bicicletta. Ha sempre preferito far parlare i risultati, tanti, più di 200 vittorie, con un mondiale, due Giri d’Italia e un’infinità di classiche con Sanremo e Lombardia a risplendere. Più che ad at­taccare, era portato a rispondere, an­che quando lo attaccavano verbalmente. In questo caso, per l’inchiesta di Mantova, ha invece dovuto farsi ancora più piccino, quasi invisibile: ha lasciato parlare gli altri. Ora che tutto è finito, con l’assoluzione piena decretata da un giudice monocratico, ma chiesta direttamente da quel pm che aveva costruito il castello accusatorio, ha deciso di dire qualcosa anche lui: e lo fa per la pri­ma volta con tuttoBICI.

«Che i giudici debbano fare il loro la­voro è sacrosanto - spiega il 58enne campione di Parabiago -. Che debbano indagare se hanno il sospetto che qualcosa non quadri è nel loro diritto, ma nel nostro Paese si finisce troppo spesso e troppo presto in pasto all’informazione solo sulla base di ipotesi. Devo dire che di questo ne avevo solo sentito parlare e letto, purtroppo in questi sei anni l’ho imparato sulla mia pelle. E con me parte del mio staff tecnico e diversi corridori».

Ora, però, ne è uscito a testa alta…
«Sì, ma a quale prezzo? Sei anni di udien­ze, indagini, carte bollate e in­chieste giornalistiche violente che ci han­no messo seriamente a rischio-so­pravvivenza. Non so come ho fatto e, soprattutto, come hanno fatto i miei sponsor a sopportare tutte quelle pagine di inchieste che gettavano fango sulla credibilità del nostro team. Sono stati degli eroi a non aver mollato il colpo. La famiglia Gal­busera, i titolari della Lampre (azienda brianzola di Usmate che produce lamiere preverniciate, ndr) è da 23 anni sponsor del team. Loro e non solo loro hanno davvero dovuto subire, a cicli quasi cadenzati, rivelazioni giornalistiche che parlavano di prove schiaccianti e situazioni, dal nostro punto di vista, semplicemente drammatiche. Per l’opinione pubblica, eravamo dei mostri. Per questo, oggi, mi sento anche in dovere di dire loro grazie. Molti, al loro posto, avrebbero tolto volentieri il disturbo. Non si spendono milioni di euro all’anno per poi finire in una macchina del fango. La cosa più semplice da fare era quella di alzare i tacchi e andarsene: loro hanno scelto di combattere questa battaglia della verità restando al nostro fianco. Questa è stata la vittoria più bel­la. Quella che riguardava la nostra faccia, la nostra credibilità».

In ogni caso non è stato facile andare avanti…
«Assolutamente no. Questa inchiesta è stata come avere costantemente una spada di Damocle sulla nostra testa. Lavorare in quelle condizioni non è facile per nessuno. Poi questa inchiesta mi ha portato a dover prendere delle decisioni tutt’altro che facili. Io stesso ho dovuto farmi da parte, ho pre­ferito mantenere un profilo più bas­so per il bene del team e dei miei collaboratori. Alcuni nostri tecnici, co­me Mau­rizio Piovani o Fabrizio Bon­tem­pi, sono stati in pratica demansionati. Alcuni corridori sono andati via, altri hanno smesso. Chi è rimasto ha dovuto confrontarsi con questo stato di cose. Per ogni persona è stato un trauma no­tevole trovarsi sotto indagine, do­vere affrontare tutti i passaggi di un processo, vedere il proprio nome sbattuto sui giornali e leggere articoli nei quali si era già giunti alla conclusione, tutti colpevoli. Per non parlare delle spese le­gali né dei tanti sponsor che si erano avvicinati al no­stro team e si sono al­lon­tanati non ap­pena è iniziata questa storia. For­tuna­tamente, oltre alla Lam­pre, marchio italianissimo, ne sono en­trati di altri da Oriente, come la Me­ri­da, colosso taiwanese della bicicletta. Insomma, nonostante le avversità, sia­mo riusciti a navigare in acque tempestose e a portare la na­ve in porto».

Tutto questo però è il passato: e per il fu­turo…
«Al futuro ho sempre guardato, anche in questi anni bui e non facili. È stata la nostra forza, per non dire la nostra prerogativa. Giovani da lanciare, talenti da scoprire, mercati nuovi da esplorare, soprattutto quelli asiatici (prima società mondiale, a dotarsi di un sito in lingua cinese, ndr): gran parte del no­stro budget, il 60%, viene da lì. Ab­biamo stretto rapporti di collaborazione con team giovanili come la Colpack di Giuseppe Colleoni, una del­le realtà nazionali più floride, autentica fucina di talenti che da quest’anno è diventata a tutti gli effetti il nostro serbatoio giovanile. Noi siamo un team che ha base operativa a Usmate, nel cuore della Brianza, ma la nostra visione è assolutamente globale: i nostri occhi sono sul mondo e quello che più mi rende felice e orgoglioso è non doverli più abbassare. Oggi possiamo andare in giro a te­sta alta, in attesa di tornare ad alzare anche le braccia al cielo».

Si dice che siate sulle tracce di Nibali...
«A chi non interessa un corridore della classe di Vincenzo? A noi piacerebbe molto portarlo a vstire la maglia blufucsia della nostra formazione, ma questo tipo di discorso è ancora molto prematuro. Anche se sognare non costa nulla».
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COMMENTI
Rebellin
23 febbraio 2016 20:29 IngZanatta
Confesso di aver preferito Moser a Saronni (ma in assoluto preferivo Giovanni Battaglin), ora ho grande ammirazione per Rebellin e non dimentico che Saronni ha avuto una buona parola per lui a Radiocorsa, forse perché ha provato sulla propria pelle cosa vuole dire essere travolti dalla \"gogna mediatica\". Saronni, lo facciamo un contrattino anche a Ballan?

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