OSS. L'uomo del rock duro

PROFESSIONISTI | 06/10/2014 | 08:05
Rock o lento? Per definire Da­niel Oss non c’è dubbio su quale aggettivo sia più ap­propriato. Grande appassionato di musica, da quando nel 2009 è arrivato al professionismo con la Li­quigas lento non è mai andato. La sua filosofia di vita? It’s only bike and rock&roll. Il trentino classe ’87, che vestirà la maglia del Team BMC almeno fino al 2016, e vive da due anni a Torbole sul Garda da solo (notizia che interesserà soprattutto alle fans, ndr) in questa intervista si racconta a cuore aperto prima del gran finale di stagione.

Per iniziare serve un po’ di musica. Qual è stata la colonna sonora del tuo Tour de France?

«In Francia ho ascoltato soprattutto i Sublime, gruppo ska punk californiano, e Bonobo, musicista, dj e producer britannico».

Al Giro d’Italia invece cosa ascoltavi?
«I Bud Spencer Blues Explosion, una band alternative rock punk blues che, a dispetto del nome, è italiana. La conosci?».

No, mi becchi impreparata. Un altro titolo per completare la compilation di fine stagione?
«New Error dall’album Moderat, progetto di musica elettronica tedesco. Non prendere alla lettera il titolo però, in questi ultimi mesi di gare non voglio fare errori. La stagione anche se corta è stata molto intensa. Dopo la Grande Boucle ho partecipato alla Vuelta Bur­gos senza staccare per niente. Al­l’Eneco Tour non stavo benissimo, di­ciamo che la condizione era in picchiata ma grazie a un gruppo ben assortito, come squadra siamo riusciti a fare un buon lavoro. Prossima corsa: GP Am­burgo».

Tiriamo le somme della tua stagione 2014.
«Il bilancio è abbastanza positivo. Pur­troppo ho dovuto saltare la prima parte della stagione a causa della sciatica, che mi ha costretto a guardare in tv le corse che amo di più, le classiche del nord. Ad ogni modo le cose poi si sono raddrizzate: ho riattaccato il numero al Giro del Trentino, vincendo la cronosquadre di apertura che mi ha permesso di vestire la prima maglia di leader della corsa di casa. A seguire ho disputato il Giro d’Italia al servizio di Cadel Evans e il Tour de France in appoggio a Teejay Van Garderen. Mi è mancato qualche risultato personale ma penso di aver lavorato a dovere per il team».

Ora cosa ti aspetta?
«Il grande obiettivo di fine stagione è la cronosquadre mondiale, per prepararla al meglio correrò poco ma svolgerò allenamenti mirati. Durante l’anno scorso come BMC siamo sempre rimasti fuori dai cinque in questo tipo di prove, a parte il giorno della sfida iridata che siamo arrivati quarti. In que­sta stagione il trend è migliore: abbiamo vinto in Trentino, al Giro ci siamo piazzati terzi e nella cronometro di chiusura dell’Eneco siamo finiti tutti nelle prime posizioni. Partiamo tra i favoriti, il podio è alla nostra portata, ma da qui a un mese può cambiare tut­to. Nel periodo del mondiale bene o male tutti si presentano in condizione, ma avendo corso tanto è facile trovarsi a corto di energie. A me e ai miei compagni per questa disciplina il potenziale non manca, dovremo gestire bene le forze».

Entriamo nel personale. Presentaci la tua famiglia.
«Mamma si chiama Anita, papà Fulvio. A Pergine Valsugana gestiscono da 32 anni un ristorante-pizzeria. Finché non arriverà un cinese a soppiantarci, teniamo duro (sorride, ndr). Ho una sorellina, Danila, che ha 21 anni. Da bambina ha provato anche lei a correre in bici, ma ha smesso ben presto. Oggi si dedica alla pallavolo ed è alta praticamente come me».

Come trascorri il tempo libero?
«Vivere sul Lago di Garda è davvero piacevole, è un posto figo che offre tan­ti divertimenti. Ogni tanto provo il wind surf, spesso semplicemente trascorro del tempo nei miei due baretti preferiti con amici. In genere mi rilasso senza fare niente di speciale, la vita del corridore è già abbastanza frenetica. Quando sono a casa mi piace soprattutto mangiare e bere bene».

Cosa?
«Vuoi che ti faccia l’elenco? (ride, ndr). Siamo sempre in giro e spesso con il mangiare bisogna un po’ arrangiarsi e adeguarsi a quel che passa il convento. Io sono una buona forchetta, il cibo italiano mi piace tutto. Arrivo da una terra di vini, bevo volentieri sia quelli che la birra».

Hai dei fans parecchio folcloristici, a co­minciare dal canadese che urla come un pazzo davanti alla tv “Go Danny Oooss. Say it” obbligando chi gli sta attorno a incitarti come fa lui.
«Mi fa molto ridere. È un amico che frequenta il Mecki’s coffee and bi­ke shop, un brand creato da alcuni miei amici tra cui l’ex corridore Ivan Bel­tra­mi, ogni tanto mi manda questi video in un cui urla come un pazzo, un mix tra l’aggressivo e il fan scatenato. Mi fa sbellicare dalle risate».

Sei molto amato anche in Giappone, come mai?
«Questa storia non so bene come è nata, forse tutto è partito perché ho un tatuaggio giapponese (un drago posizionato sulla spalla e il braccio sinistro, ndr), ho vissuto un periodo un po’ fusion e mi sono appassionato alla cultura orientale. I giapponesi sono sempre online e mi seguono spesso, hanno un certo attaccamento verso lo straniero e so­no affascinati da tutto ciò che è italiano. Ho iniziato un botta e risposta con una tifosa tra le più attive, Kanae Kita­mu­ra, una don­na di circa 50 anni che segue molto sia me che la squadra tanto che quando ho creato il mio sito si è resa disponibile a tradurre in giapponese i miei post. Questo piccolo seguito è cresciuto con il passa parola e si è consolidato quando sono stato in Giappone per la Japan Cup un paio di anni fa. Dopo la corsa vi sono rimasto per un periodo di vacanza e lì ho conosciuto un po’ di gente, ho imparato che i giapponesi sono molto riverenti e cu­riosi, insomma ho trovato un po’ di amici dall’altra parte del mondo».

Chi ti ha trasmesso la passione per le due ruote?
«Mio padre, ma è meglio dire per lo sport in generale. Da ragazzino ho praticato sci, calcio e vari sport ma non me ne piaceva uno. Con più assiduità pattinaggio su ghiaccio, specialità velocità, fino a 13 anni. Ho scelto il ciclismo perché rispetto al pattinaggio poteva offrirmi un futuro più concreto e perché era uno sport più di gruppo».

Ricordi la tua prima bici?
«Era piccolina, gialla e blu, gli stessi colori della mia prima squadra, l’Unio­ne Sportiva Aurora e del Trento. Non ricordo la marca, dovrei far visita al mu­seo di Pergine Valsugana in cui un appassionato raccoglie le bici di tutti i corridori trentini del passato e del presente per rinfrescarmi la memoria».

La prima gara?
«Vado in bicicletta da quando sono bambino. Ricordo ancora nitidamente quando, con mio padre, prendevo la mountain bike e lo sfidavo sui sentieri che portano ai laghi vicino casa. Gite di pochi chilometri, immersi in paesaggi stupendi. Momenti rilassanti per mio padre, esaltanti per me. Mi sentivo emozionato e felice. Stava nascendo in me una grande passione che si sarebbe trasformata in un grande sogno.
Le strade vicino a casa, però, dopo un po’ non mi bastavano più. Volevo far cor­rere altrove la mia bicicletta. Un modo per sentirmi libero, su due ruote sottili. Così, quasi per caso, sono venuto in con­tatto con una del­le società ciclistiche più importanti del Trentino e all’età di 7 anni è arrivato il grande gior­no: la mia pri­ma, vera, gara. Cer­cavo di nascondere l’emozione, ma ero nervoso. Agitato e felice. Teso e sereno. Una sensazione strana, che poi avrei provato centinaia di altre volte. La partenza era a Ro­ve­re­to, città vicina al mio paese. Ca­te­goria Giovanissimi. Ho pedalato forte, divertendomi, come quando andavo con mio padre, ai laghi vicino Pergine. E ho vinto».

Cosa ti ha insegnato il ciclismo?
«Tutto, se sono la persona che sono è soprattutto merito del ciclismo. Sem­brerà una frase fatta ma lo sport è davvero una scuola di vita, ciò che ti accade pedalando è facilmente paragonabile alla vita reale. La bici ti dà grandi insegnamenti, ti educa, ti offre degli obiettivi, insegna il rispetto per i compagni e per gli avversari. Oltre al ciclismo mi hanno insegnato molto le persone che ho conosciuto in questo am­biente. Al di là dei miei genitori che mi hanno aiutato molto per arrivare dove sono arrivato, devo ringraziare Dario Broccardo, che è il mio secondo papà sportivo. L’ho conosciuto da esordiente, quando ha iniziato a seguirmi per gli allenamenti, ci siamo affezionati l’un l’altro stagione dopo stagione, dai dilettanti al professionismo non mi ha mai lasciato. Un grazie lo devo anche a Renzo Bortolotti, presidente della mia prima squadra e a tutte le belle persone che in questi anni ho avuto al mio fianco. Sono tante, sono stato fortunato».

Cosa chiedi alla tua bici per i prossimi anni?
«Di non lasciarmi mai. Se potessi espri­mere un desiderio, utopico me ne rendo conto, vorrei correre in bici fino a 70 anni. Credo tanto in questo sport, voglio arrivare il più avanti possibile, spero mi riservi tante belle cose, tante esperienze preziose, vorrei anche vincere un po’ di più, diventare qualcuno. Il nostro sport ha bisogno di bei personaggi e si merita un po’ di rock&roll».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di settembre
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