Pedalare in Israele è stata un’esperienza molto forte. Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare giornalisti da tutto il mondo, di parlare con israeliani, arabi e palestinesi. Discorsi di pace, concetto difficile da spiegare ad uno che viene da un Paese che con la fine della 2^ guerra mondiale non ha più dovuto affrontare conflitti armati interni.
E così, mentre mi arrampico sulla Salita degli Scorpioni, l’ascesa più impegnativa della giornata, mi chiedo quale sia il senso di quella pedalata in un territorio che trasuda storia, mitologia ed abbagliante bellezza paesaggistica. Roba da sentirsi piccoli piccoli.
Mentre il mal di gambe aumenta, continuo a tornare alla rassegnazione espressami da alcuni locali per via di un futuro tutto da decifrare. Eppure i dati economici parlano di uno dei tenori di vita più alti al mondo. A conferma di ciò, attorno a me sfrecciano bici migliori di quelle dei professionisti con abbigliamento, unito a caschi ed occhiali, da boutique.
La spiegazione datami da un avvocato mi è parsa abbastanza originale. “Quando mi sorpassano voglio che tutti si girino a guardare la mia bike. Sentire il loro wow di stupore mi piace”.
Eppure, a pochi chilometri, ci sono i beduini che pascolano nel deserto con i loro cammelli e delle bici, a loro, importa poco o nulla. Vivono in baracche simili a favelas, non sanno guidare ma hanno la patente e sono dei veri e propri pericoli viaggianti quando prendono l’auto”.
Mentre la salita finisce mi imbatto in un cartello che indica i meno 400 metri sul livello del mare. Eppure sto salendo da 8 chilometri. Ed è qui che ho ricordato il discorso legato alle acque del Mar Morto, mare che sta sprofondando. Nella sua acqua è quasi impossibile nuotare ed è bene non infilare la testa sott’acqua vista la grandissima concentrazione salina. Sali che sono un business, sia per le aziende di cosmesi, sia per l’estrazione del magnesio per la produzione di cerchi per auto. Il sale da tavola invece non vale nulla. Un mare che muore e si pensa ad importare, con un progetto internazionale, l’acqua da mari vicini. Per ora la parte nord ha ancora delle riserve che vengono utilizzate, anche per alimentare la parte sud, grazie ad un sistema di pompe e canali. Un discorso ingegneristico complicato ed incredibile. Senza acqua non si vive. “Siamo il popolo della tecnologia” spiegano gli israeliani, “e sapremo risolvere questo problema, così come abbiamo saputo coltivare nel deserto, inventando nuove tecniche di coltivazione”.
Tornando alla strada si passa ancora di fianco ad un reattore nucleare, una zona costantemente presidiata e recintata, così come si incontrano dei carri armati trasportati da camion. In Israele succede anche questo ed è comprensibile per uno Stato che spende molto del suo reddito per la sicurezza e dove ragazzi e ragazze svolgono il servizio militare obbligatorio, rispettivamente per 3 e 2 anni. A meno che tu non sia ortodosso. Ed è facile ricordare un lungo discorso sulla minoranze di un popolo che parla l’arabo, ma arabo non lo è, nella terra lambita dal Giordano dove è stato battezzato Gesù.
Tutto scorre con tranquillità e grazie a questi pensieri tra me e me riesco ad arrivare al traguardo. Sono passate 7 ore (155 km) e solo grazie alle numerose soste ai ristori sono riuscito a cavarmela. In gennaio non ero mai stato 7 ore in bici. Pensandoci bene forse non ci ero mai stato in tutta la mia vita.
Il finale è ancora più bello. Dopo averci raggruppato tutti sulla cima della salita e rifocillati, si scende su una strada con ampi tornanti verso gli hotel di Ein Bokek. Ancora una volta colori magnifici, strade eccezionali e il mare azzurro e bianco sullo sfondo.
Infine le premiazioni con ancora tante sorprese. La più curiosa quella di veder arrivare le concorrenti, bellissime ed atletiche, non intruppate in orribili tute dopo gara, ma con ancora le divise da bici e stivaloni fashion all’ultimo grido. Strano, contraddittorio, sorprendente come Israele.
da Ein Bokek, Pietro Illarietti
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