Quanto batte il cuore di un ciclista? Tantissimo sotto sforzo quando sangue e ossigeno devono raggiungere velocemente i muscoli, molto più lentamente a riposo soprattutto se si tratta di fuoriclasse.
I numeri dei grandi campioni sono davvero bassi: Indurain si dice avesse una frequenza cardiaca di 30 battiti al minuto, Coppi e Bartali lottavano sul filo dei 40, Pantani sfiorava i 45. Anche agli uomini grandi e forti, però, l’organo sede di sentimenti e passioni può tirare qualche brutto scherzo. È accaduto di recente a Mattia Cattaneo, 23 anni compiuti lo scorso mese di ottobre, un talento del pedale e un ragazzo speciale che il ciclismo ha rischiato seriamente di perdere.
Anche chi, come noi, da mesi è a conoscenza della disavventura affrontata dal giovane talento di Alzano Lombardo (Bg) per il suo pudore e la sua voglia di riservatezza, ha deciso di assecondarlo. Ora che, finalmente, la brutta storia vissuta da Mattia ha trovato un lieto fine, siamo felici di poter rendergli omaggio in occasione del suo ritorno in bici.
Mattia, dopo il Campionato Italiano non ti abbiamo più visto con il numero attaccato sulla schiena: cosa è successo?
«Fino al Giro d’Italia, nonostante la caduta nella settima tappa, la San Salvo-Pescara, che mi ha costretto al ritiro dalla corsa rosa, nel complesso era andato tutto bene, ma dopo la sfida tricolore è iniziato l’incubo. Sono stato poco bene, ho iniziato a soffrire per dei giramenti di testa, come quelli avvertiti quando ci si alza troppo velocemente a causa della pressione bassa. Ho iniziato ad averli di frequente e mentre ero in bici un paio di volte sono svenuto. Giustamente, con i medici della squadra abbiamo voluto capire quale fosse il motivo di questi mancamenti, mi sono sottoposto ad esami approfonditi e per l’esito di una risonanza magnetica dubbia è iniziato il calvario».
Spiegaci.
«Da questo esame i medici hanno evidenziato una displasia aritmogena, un problema cardiaco per cui un ventricolo (nel mio caso il destro) risulta troppo sviluppato rispetto all’altro. Questa situazione può essere compatibile con la pratica di uno sport ad alto livello ma in casi rari è dovuta a una malattia ereditaria. L’unico modo per capire a quale delle due opzioni rispondesse il mio caso, era aspettare tre-quattro mesi e ripetere la risonanza. In questo arco di tempo ho dovuto fare il meno possibile, insomma riposo assoluto. Ho ripetuto gli esami a cui mi ero sottoposto e me ne sono stati prescritti altri più approfonditi, avrò superato quota 40 visite e ora ho una cartella medica strapiena di carte. Comprensibilmente nessun dottore voleva prendersi il rischio di concedermi l’idoneità sportiva prima di avere la certezza che stessi bene».
Il rischio era che avessi una patologia cardiaca congenita come quella che ha stroncato la vita al pallavolista Bovolenta, deceduto in campo nel 2012. Hai avuto paura?
«Tanta, ovviamente non solo per la mia carriera. Inizialmente ero davvero preoccupato, dopo i primi esami i medici mi hanno assicurato che la probabilità di trovarmi nel caso peggiore era minima, spiegandomi che capita spesso che ragazzi giovani soffrano di sincopi inspiegabili e che il cuore di uno sportivo che pratica attività fisica elevata assuma la conformazione del mio. I controlli del mese scorso infatti hanno appurato, per fortuna, che nel mio caso gli svenimenti non erano sintomo di una malattia congenita e grave come quella del povero Bovolenta, ma solo causa di un momento di stress, conseguente alla delusione dovuta al ritiro forzato del Giro. Non c’è una spiegazione vera e propria a quello che mi è successo, ma grazie a Dio è stato solo un problema passeggero».
Hai pensato di dover appendere la bici al chiodo per sempre?
«Eccome, non hai idea di quante volte. Ti dico la verità, sono stati mesi difficilissimi. Soprattutto di testa. Anche se sono giovane me ne sono capitate tante: tra infortuni e disavventure varie, ormai dovrei essere abituato a soffrire e reagire alle avversità del caso ma questa volta è stata davvero dura. Devo ringraziare chi mi è stato vicino. La mia famiglia: mamma Chiara, papà Flavio, i miei fratelli Simone e Marta, la mia fidanzata Giulia, il mio procuratore Fabio Perego, tutti i componenti della mia squadra, i direttori sportivi degli anni passati e gli amici, quelli veri che non mancano mai. Per quanto riguarda l’aspetto sportivo, io da sempre sono convinto che se uno non ha i numeri per essere un corridore professionista non è una tragedia smettere, se non si riesce a essere tra i migliori si possono intraprendere tante altre strade e realizzarsi attraverso lavori altrettanto dignitosi e appaganti. Capisco i medici che non hanno voluto prendersi la responsabilità di firmare le carte per farmi tornare in bici prima, li ringrazio per avermi fermato ed essersi assicurati che fossi davvero idoneo per riprendere ad allenarmi e gareggiare. Dover smettere per qualcosa d’incontrollabile, per cui nessuno aveva colpa o soluzione, mi avrebbe dato davvero fastidio. Avessi messo a rischio la mia salute sarei stato il primo a dire addio alla bici, a malincuore avrei rinunciato al mio sogno, l’avrei fatto con la consapevolezza che nella vita non c’è solo il ciclismo. Non avete idea però di quanto mi sarebbe dispiaciuto».
È ormai una consuetudine: sbattere sul mondo virtuale i propri problemi reali. Tu hai scelto il silenzio e il basso profilo…
«Esattamente così, ho voluto il silenzio. A me i social network non interessano, scrivo pochissimo sia su facebook che su twitter. Scrivo qualcosa ogni tanto solo perchè Giulia mi ha creato un profilo, ma potrei farne benissimo a meno. Sia nei momenti belli che in quelli brutti non mi interessa essere al centro dell’attenzione. Sono fatto così e sto bene nel mio mondo, con le persone che amo e mi vogliono bene. In questo caso non ho sentito la necessità che tutti sapessero cosa stavo passando. Con questo non voglio dire che sono meglio degli altri, ma semplicemente sono diverso».
Con che spirito sei tornato in sella?
«È successo a inizio novembre. Avevo davvero tanta voglia, ma ho provato una fatica immane ad allenarmi dopo quattro mesi di riposo assoluto, senza neanche un’oretta nelle gambe. Alle prime uscite mi sembrava di essere tornato esordiente, ero gioioso ma senza forze. Con la testa vorrei strafare, ma il fisico mi chiede di andarci piano. Devo tenere a freno la voglia di recuperare il tempo perso perché la condizione è quella che è e va recuperata piano piano. Ai primi di dicembre ho ritrovato i miei compagni e i tecnici della Lampre a Boario Terme per il primo ritiro dell’anno. Per la prossima stagione spero innanzitutto di non essere più bloccato da intoppi fisici, poi ci metterò come sempre il massimo dell’impegno e quello che verrà verrà. Non vedo l’ora di respirare di nuovo l’aria del gruppo e lo spirito delle corse: queste sono davvero cose che mi riempiono il cuore».
di Giulia De Maio, da tuttoBICI di dicembre