Maria e Giuseppe si fermarono in un motel della periferia. La stanza non era granché, ma gli alberghi del centro praticavano tariffe altissime, e comunque anche in quella stanzetta sul ballatoio c’era la macchina per il parto, come ormai era obbligatorio pure nell’ultima locanda. Nascevano pochi, pochissimi bambini, le sezioni per partorienti dei grandi ospedali erano chiuse da tempo immemorabile, e intanto nessuno stato poteva permettersi di perdere un futuro cittadino, essere umano di cui la carenza era ormai gravissima intanto che l’utilità, la necessità anzi erano innegabili: il nascituro. I motel della cintura erano l’optimum, garantivano macchine per il parto sempre a posto, vicinanza con la città per ogni evenienza, parcheggio sicuro, e alcuni avevano anche distributori automatici di latte per neonati, molto più caro di ogni altro genere alimentare esposto anch’esso in teche trasparenti, con tanto di gettoniera che accettava qualsiasi moneta del globo, anche se non era garantito il resto in moneta diversa da quella del paese dove il distributore era collocato. L’ideale per un popolo fatto ormai tutto di gente che non voleva far nascere i figli al paesello, che era cercato sì per i week-end ma che, se sede per sempre o comunque per sempre scritto sulla carta di identità, faceva tanto contadinotto di altri tempi.
C’erano città che addirittura avevano tentato di connotarsi come ideali per il parto, vantando abbondanza di macchinari e tariffe alberghiere basse e latte sintetico di prima qualità e di ultimo prezzo e persino il clima costante ideale perché i pupi nascessero sani, forti, belli, in linea di massima biondi e destinati subito a fare sfrigolare di soddisfazione le macchine che calcolavano - con semplice formule basate su ora di venuta al mondo, segno zodiacale, peso, intensità di strillo e colore degli occhi - il quoziente di intelligenza del bipede implume chiamato uomo e, rigidamente una volta su due, donna.
In sostanza il parto non era l’emozione vera, anzi non era neppur il momento massimo. Che invece era quello dei doni.
Di tutte le usanze del passato ormai fatto archeologia una sola era stata chissà perché conservata, quella dei doni alla creatura appena nato(a). C’era chi diceva che i vecchi saggi, completamente inutili ai fini pratici della vita sociale, proprio soltanto per questo venivano tenuti in vita talora anche dopo l’età ics in cui finire la vita (anch’essa calcolata con formule sicure): perché sempre ce ne fossero disponibili onde portare, con un minimo di solennità all’antica, i doni al neonato, o meglio ai suoi genitori.
Doveva trattarsi di doni che, comprati col denaro della comunità, fossero perfettamente in linea con le regole del buon vivere impartite dall’Alto: oggetti altamente tecnologici per la vita di tutti i giorni, pilloline sintetiche per tutti i pasti a venire, abiti in tessuto repellente nei riguardi di qualsiasi forma di inquinamento, mascherine a filtrare l’aria fetida, e fra il resto immancabili dischetti didattici speciali per l’assimilazione rapida delle cose da fare per guidare un’auto, operazione primaria e intanto somma di ogni abitante del pianeta. In sostanza, il kit per esistere. Comitati severi e all’occorrenza feroci sovrintendevano alla definizione della lista dei doni, tenendo conto della situazione famigliare ma anche badando che nessuno avesse troppo e nessuno troppo poco. I paesi che non potevano permettersi questi comitati efficienti, nonché costosi in termine di grassi salari dei loro membri, erano considerati di fascia B, erano l’eterno sud del mondo, che esiste sempre quale che sia l’era in corso.
I vecchi scelti per quel bambino erano di quelli migliori, supercollaudati per porgere bene i doni. Era Natale e in Alto si faceva sì che ogni occasione fosse buona perché il misticismo di quella festa venisse in qualche modo conservato. E poi quella città (Betlemme, il nome era stato conservato bene nel tempo) aveva una certa fama positiva, nell’ospitare partorienti e nel fornire il kit ai neonati. Il parto era andato ovviamente benissimo (un bambinello, ma il sesso del nascituro era conosciuto da tempo) e dunque Maria e Giuseppe attendevano sereni e fiduciosi l’arrivo dei doni, mentre il bambinello vagiva e se buio la stanza veniva rischiarata anche da una enorme stella al neon che sovrastava la loro finestra, e della quale non si erano assolutamente accorti quando erano arrivati, benché fosse sera.
I vecchi di norma erano tre e cercavano di portare doni complementari, per coprire tutta la gamma di bisogni del nascituro nella sua programmata lunga vita. Quei tre che arrivarono da Maria e Giuseppe e il piccolino apparivano un po’ strani, nel senso che erano vestiti da vecchi illustri e che due erano a mani vuote mentre uno alzava a fatica un qualcosa di mai visto prima e intanto farfugliava le formule di rito per accompagnare un regalo, ricordando che quello che lui stava per smistare avrebbe dato al piccolo forza pratica e poesia, salute e utilità, progresso e sicurezza, vittoria sul traffico e salutistica occasione di sudore, libertà dagli orari e anche dai parcheggi, insomma vita nuova a basso costo. Liberò la cosa, il coso dalla carta, molta, che lo avvolgeva, era un oggetto con due ruote, un triangolo di ferro a collegarle in qualche modo, ed altri strani oggetti a completare il tutto. “Una scultura?”, chiese Maria quasi allarmata. No, fu la precisazione immediata, una bicicletta.
di Gian Paolo Ormezzano, da tuttoBICI di dicembre
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