Il nostro Santino

TUTTOBICI | 04/08/2013 | 09:24
La confessione di Ullrich e le reticenze di Rebellin, in mezzo, per fortuna, la vittoria di Ivan Santaromita: il nostro Santino.
«A Fondo con Rebellin», gridavano ironici gli aficionados del corridore veneto al via del Trofeo Melinda, valevole per il campionato italiano. A fondo con Rebellin il ciclismo italiano ha rischiato davvero di finirci nuovamente il 22 giugno scorso, ma a sistemare le cose, con una progressione secca all’ultimo chilometro ci ha pensato lui, Ivan Santaromita, che si è lasciato alle spalle Michele Scarponi (grande protagonista della sfida tricolore, che fa vedere la cosa più bella, quando ac­cende la miccia e provoca la selezione con Stortoni) e Davide Rebellin, l’unica medaglia olimpica (a Pechino) cancellata nella storia dello sport italiano e quel che è peggio, ancor oggi incapace di ammettere le proprie colpe.
«Io non so se la vittoria di Davide (Re­bellin, ndr) sarebbe stata un male per il ciclismo italiano - spiega il ventinovenne campione d’Italia a caldo, appena sceso dal podio -, so solo che sono felice per me. Per aver coronato un sogno, dopo il secondo posto all’italiano del 2010 e il settimo del 2011. Cosa posso dire? Oggi la maggior parte dei corridori è pulita, prendete la mia storia. Io mi sono costruito anno dopo anno, tra gioie e dolori, sono cresciuto in maniera costante. I primi anni sono stati davvero difficili, facevo tanta fatica, finivo le corse ma niente di più. Nel 2010 ho vinto la mia prima corsa a tappe, quest’anno le prime corse in li­nea. Gli anni futuri sulla carta sa­ranno i migliori della mia carriera, ma devo imparare a credere di più in me stesso perché mi abbatto un po’ troppo facilmente».
“Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore”: questa citazione di Charlie Chaplin, con le dovute proporzioni, si può adattare al ciclismo italiano e soprattutto al “miracolo” realizzato da Ivan San­ta­romita.
Il sorriso e le lacrime di gioia di San­tino risollevano il morale di un movimento in crisi, con sempre meno squadre, corridori e soldi che sentiva proprio la necessità di un volto pulito come quello del nuovo campione nazionale.
«Mi sono visto scorrere davanti agli oc­chi tutta la vita, ho ri­per­corso tutta la strada af­frontata per arrivare fin qui, la rincorsa verso questa maglia. Da quando ero un bambino, passando per i mo­menti buoni e quelli difficili. Fi­nora non avevo avu­to tanta fortuna nella mia carriera, ogni volta che stavo be­ne succedeva qualcosa che mi metteva i bastoni tra le ruote, una caduta, un’influenza. Questa volta invece è stata una giornata perfetta».
La sua emozione nel tagliare il traguardo sognato da una vita, il bacio con Chia­ra che diventerà sua moglie il pros­simo 26 ottobre, l’abbraccio con mamma Rosita, papà Rino, i suoceri, alcuni amici di Bolzano che non potevano mancare, la stretta di mano e lo sguardo d’intesa con il preparatore An­drea Morelli sono la fotografia di un ragazzo semplice, che ha sempre lavorato per gli altri e che sta finalmente tro­vando la consapevolezza delle proprie potenzialità.
«Non sono tipo da fans club o almeno non ne ho ancora uno, m’interessava solo che ci fosse la mia famiglia a ve­dermi perché sapevo di poter far bene. An­che se ero solo con Ballan, visto che Oss ci ha bidonato nonostante il Tro­feo Melinda si corra proprio vicino a casa sua, sapevo che con un gregario d’eccezione come lui avrei potuto centrare il successo. Mica capita tutti i giorni di avere al tuo servizio un campione del mondo...».
Portare questa maglia per un anno in­tero, nonostante le difficoltà che sta vi­vendo e l’immagine non proprio idilliaca che il nostro Paese ha all’estero, è per lui motivo di  orgoglio.
«Questo simbolo per me è davvero im­portante quindi darò il massimo per onorarlo nel migliore dei modi. Come molti giovani della mia età, nel nostro Paese vedo che le cose non vanno mol­to bene, c’è la crisi no?, e sono un po’ scettico per il futuro, ma credo che l’I­ta­lia resti il Paese più bello del mondo e si risolleverà puntando sulla cultura e le bellezze paesaggistiche e artistiche di cui dovremmo farci vanto e valorizzare di più. Sono innamorato del mio Paese e, nonostante corra da parecchio per una formazione estera non ho intenzione di andarmene, anzi ho in programma di costruirmi una famiglia qui».
Professionista dal 2006, ha trascorso due anni alla Quick Step con l’attuale ct Paolo Bettini, poi è stato per tre stagioni in Liquigas crescendo al fianco di Ivan Basso e Vincenzo Nibali e nelle ultime tre è stato fedelissimo di Cadel Evans alla BMC. In otto stagioni tre cronosquadre vinte, più tre successi in prima persona: la classifica generale della Coppi&Bartali nel 2010, una tap­pa del Giro del Trentino quest’anno e sempre in Trentino questo Campionato Ita­liano.
Amante della tecnologia, dei videogiochi di calcio che porta anche in ritiro organizzando delle sfide con i compagni, fan di Ibrahimovic e Angelina Jo­lie, non ha nessun rito scaramantico, ma porta sempre con sé in valigia un piccolo palloncino regalatogli tanti an­ni fa da Chiara e un rosario dono di Don Daniele Laghi, il don dei ciclisti, neanche a dirlo, parroco in Tren­tino.
«Sono uscito bene dal Giro d’Italia, negli ultimi giorni del Delfinato ho avuto ottime sensazioni, tornato a casa ho recuperato un po’ e mi sono allenato per arrivare al 22 giugno al cento per cento. Essendo in inferiorità numerica rispetto ad altre squadre, sapevo di do­ver aspettare il momento giusto per muovermi, su un arrivo così se arrivavo con un gruppetto ristretto all’ultimo giro me la potevo giocare sull’ultima sa­lita. La mia preoccupazione era quella di arrivare in un gruppo folto in volata: in quel caso con Moser o altri ragazzi più veloci di me, sarebbe stata dura vincere. Ma sapevo bene che avversari come Pellizotti e Scarponi avrebbero finito per fare il mio gioco e portare via un gruppetto. Appena ha allungato Scarponi l’ho seguito, sapevo che sa­rebbe stata l’azione giusta. Nel finale temevo Scarponi ma anche Rebellin, due corridori d’esperienza. De Marchi è stato bravo, ma era un po’ al gancio mentre gli altri due erano sicuramente più pericolosi. Ho aspettato l’attimo giusto, sono partito a 500 me­tri e ho dato tutto quello che avevo fino alla linea del traguardo».
Fisico segaligno, sguardo sveglio: ha voluto la bici per inseguire i fratelli. Uno fu gregario di Bugno e l’altro non ebbe modo di conoscerlo: morì mentre correva in sella alla sua bicicletta. Pe­dala da quando ha cinque anni, Ivan, e corre da quando ne aveva nove. Alla prima corsa si è presentato con la maglia bordeaux dell’UC Ar­ci­sate e una biciclettina viola. «La voglia di correre me l’ha trasmessa mio fratello Mauro Antonio, che è stato un buon professionista fino al ’97. È stato gregario di grandi campioni, ma non ha mai vinto il Tricolore. Ora non sono più il fratello d’arte, ma il campione di famiglia (sorride, ndr). A parte gli scherzi, Mauro mi segue molto e mi dà spesso consigli preziosi. Un pezzo di questa maglia è suo. Se sono arrivato fin qui è merito oltre che suo, dei miei genitori e di Chiara».
Chiara che, ancora oggi, a distanza di tempo, si commuove a parlare di quella giornata tricolore…
«Ogni tanto i sacrifici vengono ripagati - dice -. Ivan ha sempre tenuto in modo particolare a questa corsa, e ogni anno rischia di farmi venire un infarto. I gior­ni precedenti il grande appuntamento, lavorando come maestra in un asilo, mi ero presa una ma­lattia infettiva dai bimbi e avevo una paura di avergliela attaccata... Ogni giorno gli chiedevo preoccupata: come ti senti?».
Il merito di questo traguardo raggiunto, oltre che della bella Chiara, è anche di Andrea Morelli, preparatore di Ivan, che lui definisce un fratello e un punto di riferimento fondamentale per il suo lavoro. La dedica di questa commovente vittoria è per tutti coloro che hanno sempre creduto in lui, a partire da Aldo Sassi e a chi prosegue il suo lavoro al Centro Mapei.
E se si parla di Centro Mapei, Ivan non può ricordare l’emozione più grande di quel magico sabato di Fondo, quando ad un certo punto gli passano un cellulare: dall’altra parte c’è il presidente di Confidustria Giorgio Squinzi, che vuo­le complimentarsi con lui.
«Non sono riuscito a dire nient’altro che grazie - ricorda ancora oggi Ivan -. Conosco Squinzi, ma non ho la gioia di avere un rapporto di confidenza con lui. Il presidente era felice, mi diceva che la mia vittoria faceva bene a tutto il movimento, io non sapevo dire nulla di sensato se non grazie, grazie e ancora grazie».
Il Santino del ciclismo d’Italia parla poco e lo fa con il pudore di chi non è abi­tuato a stare sotto i riflettori. Ma ha ambizioni e sogni ancora da realizzare. Una maglia ce l’ha, altre due spera di conquistarle. Prima quella azzurra, per il mondiali di Firenze, poi, un giorno, quella rosa «perché penso di poter far bene anche nelle corse a tappe: i numeri lo dicono. La vittoria di tappa al Gi­ro del Trentino mi ha dato maggior consapevolezza dei miei mezzi, ora de­vo convincermi ad averne ancora di più. Al Giro d’Italia ero partito con grande convinzione e stavo davvero bene, ma la caduta di Matera mi ha ostacolato parecchio e non mi ha permesso di esprimermi come volevo. Ad ogni modo so che anno dopo anno sto crescendo. Non ho avuto il boom che hanno altri corridori che, appena passano nella massima categoria, a 24 anni vincono a raffica, io stagione dopo stagione ho superato uno scalino alla vol­ta fino ad arrivare quasi al livello dei migliori. Nei prossimi anni andrò ancora meglio, anche nei Grandi Giri. Già quest’anno sono sicuro avrei potuto es­sere di maggiore supporto a Cadel e testarmi in prima persona nella corsa rosa, ma l’ematoma al gluteo che comprimeva il nervo sciatico mi ha frenato non poco. Sarà per il prossimo».
Il nuovo campione, dopo aver indossato il tricolore, si è concesso dieci giorni di riposo assoluto «perchè ho iniziato la stagione in Australia al Tour Down Under e la fatica iniziava a farsi sentire». Il giorno dopo il trionfo nessuna festa scatenata o chissà quanto grande, solo l’accoglienza inaspettata del sindaco di Clivio e dei suoi compaesani, e a seguire una semplice grigliata in famiglia. Giusto per farvi capire che tipo è Ivan...
A una squadra straniera quanto interessano i titoli nazionali? Per BMC, se­condo quanto dice Max Sciandri, in ammiraglia sia nel giorno del trionfo di Santaromita che il successivo di Pi­not­ti, sono molto importanti.
«Jim Ochowicz e tutto il nostro gruppo di lavoro puntavano al maggior numero di titoli nazionali possibile. La ma­glia di campione nazionale spicca nel gruppo ed è importante sia per i corridori che per i team. Nella prova in linea avevamo al via solo due corridori, Ivan e Alessandro (Ballan, ndr), il giorno dopo solo Marco ma in tre hanno saputo aggiudicarsi le due maglie in palio, mica male no?».
Però Santino non sembra rientrare più nei piani del team americano. In scadenza di contratto, dopo il salto sul podio tricolore potrebbe farne un altro verso la terra dei canguri (Green Edge, ndr) da dove arriva capitan Evans, che l’avrebbe invece voluto ancora al suo fianco. «Cadel oltre che il mio capitano è ormai un amico. Abitiamo a quatto chilometri di distanza, usciamo spesso in bici assieme e continueremo a farlo. L’Australia mi piace, ci sono stato con Chiara do­po il Tour de France vinto da Cadel, ma non chiedetemi del mio futuro perché non posso dire niente».
Il suo futuro, inteso come gare, però è già ben disegnato. Ritorno alle competizioni in Trentino, per il Giro di Po­lo­nia. A seguire Vuelta a España, in chiave azzurra.
«C’è il Campionato del Mondo in Italia e il percorso è duro, come piace a me, quindi è chiaro che un pensierino io lo stia facendo. La maglia della nazionale è sempre stato il mio pallino, quanto quella tricolore. Nelle categorie minori non l’ho mai indossata, anche perché correvo per una squadra svizzera e ciò non ha facilitato l’arrivo di una convocazione. Ora comunque sono qua e se arriva la chiamata dal ct mi farò trovare pronto». Proprio come quel 22 giugno, quando a Fondo il nostro Santino si è caricato il peso di tutto il nostro movimento sulle spalle, regalandosi e regalando a tutti noi una vittoria di cui, al momento, non dobbiamo vergognarci neanche un po’.

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di luglio
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