Ci voleva il Festival del ciclista lento per riscrivere la storia e ribaltare le classifiche. Primo, l’ultimo. Maglia rosa, la maglia nera. Il vero record dell’ora, la minore distanza percorsa. Lui, Bruno Zanoni. Era il 26 ottobre 2019. A Ferrara.
All’inseguimento degli ultimi, Zanoni era diventato un mio punto di riferimento. Aveva il senso della misura, dettata dalla leggerezza, dalla precarietà, soprattutto da una gerarchia di valori che non erano ovviamente quelli del successo, della gloria, della fama, ma quelli della semplicità, della generosità, della disponibilità.
In “Spingi me sennò bestemmio” (Ediciclo), il libro che ho dedicato alle maglie nere, alle lanterne rosse, ai fanalini di coda, ai combattenti contro il fuori tempo massimo, agli ultimi anche di un solo giorno o di una sola corsa, Zanoni – che si aggirava nel fondo anche dell’ordine alfabetico – troneggiava nell’introduzione. Uno come lui doveva stare, finalmente, una volta tanto, lassù, in cima, in vetta. Anche perché vantava un primato storico e ineguagliabile: l’ultima maglia nera, poi abolita, fu proprio quella di Bruno Zanoni al Giro d’Italia del 1979.
Zanoni era bergamasco di Nembro: lo chiamai Nembro Kid. Invece tutti lo chiamavano Zorro: perché sbrigava la formalità del foglio di partenza scarabocchiando una semplice Z. Sei anni da professionista, una vittoria (la tappa di Assisi al Giro d’Italia del 1978), poi quella prodezza dell’ultimo posto prima di traslocare a Laigueglia e dedicarsi a un hotel. “Caddi in una delle prime tappe, al sud. Non avevo più speranze di fare bella figura e pensai solo a salvare la pelle e portarla a casa. Navigavo nei bassifondi, mi ritrovai ultimo, mantenni quella posizione. Scoprii che mi garantiva qualche vantaggio: indossavo una maglia unica, la gente mi riconosceva, Adriano Dezan mi citava nelle telecronache, i giornalisti mi intervistavano alla partenza, anche perché certe volte, quando io arrivavo, loro stavano già finendo di scrivere l’articolo. E poi c’erano i soldi: all’ultimo in classifica andavano trentamila lire al giorno e un premio finale di cinquecentomila”.
Zanoni si impegnò a fondo: a Milano arrivò centoundicesimo e ultimo, a tre ore e cinquanta secondi da Beppe Saronni, e rifilando undici minuti e otto secondi al suo più acerrimo rivale – per quanto compagno di squadra - nella lotta al basso, Angelo Tosoni, bresciano di Castenedolo (come Michele Dancelli), quattro anni da professionista, nessuna vittoria (ma s’ingozzava di traguardi volanti, e proprio in quel Giro conquistò il premio finale: una Fiat Ritmo), poi carpentiere. Per Zanoni fu il colpo della vita: “Dopo il Giro vennero i circuiti. Saronni e Moser ne corsero trentatré, io trentuno, due più di Gibì Baronchelli e addirittura venti più del mio capitano Roberto Visentini. E siccome a ogni circuito mi davano duecentocinquantamila lire, diventai ricco”. Niente più borracce di acqua ai capitani in corsa, ma bottiglie di minerale in camera ai clienti, sorrisi e consigli alla reception dell’albergo.