Ha vinto Topolino!, gridava la folla, assiepata e ammirata. Era così piccolo che si faticava a vederlo, circondato da addetti e amici. Aveva vinto a Vetralla, lui all’esordio tra gli allievi e Ardelio Trapè da habitué tra i dilettanti. Ha vinto Topolino!, gridava la folla, festante e trionfante. E accompagnava il piccolo vincitore a San Martino del Cimino, nel convento dei cappuccini, eletto a gotha del ciclismo. I vincitori sono più santi che beati. E soprattutto lui, Topolino, che gli amici chiamavano già Santino.
Sabato scorso è morto Sante Ranucci, Santino, il Topolino. Del 1933, da Montefiascone, sulla Via Francigena, dove il ciclismo coltivava un suo cammino e una sua religione. A cominciare da quel Giuseppe Caprio, corridore ai tempi di Girardengo e poi ciclista con negozio e officina, ancora aperto con un altro Giuseppe Caprio, il nipote. E a continuare con i fratelli Trapè, prima Ardelio, che di Santino si sarebbe occupato come allenatore, poi Livio, che di Santino sarebbe diventato amico oltre che collega.
Con mamma e papà ristoratori, “da Mamma Rosa e Giuseppe” il nome della trattoria a Montefiascone, Santino era così forte che a diciannove anni era già emigrato in Toscana per dedicarsi al ciclismo. Su un camion. Conquistò vittorie, conquistò amicizie, conquistò perfino Gino Bartali (“M’invitò a pranzo, due fiorentine, una lui, l’altra io, alte così, mai viste e mai mangiate prima”), conquistò un tifoso che lo adottò (“Prima una stanza dove dormire, poi addirittura la figlia da sposare”), conquistò i compagni di allenamento (“C’era anche Alfredo Martini, io stavo dietro a tutti per rispetto, mi chiamavano il Nano di Montefiascone o anche lo Zingarello di Montefiascone”).
L’apoteosi ai Mondiali del 1955, categoria dilettanti. Santino ci arrivò al massimo della forma (“Tre vittorie nelle ultime tre corse”) e delle condizioni (“Percorso duro, dunque adatto”). Infatti: vittoria per distacco. E un podio tutto azzurro: secondo Lino Grassi, terzo Dino Bruni. Premio, un milione di lire: “Una fortuna”. Il ritorno a casa: “Fra due ali di folla”. L’ingresso al Palazzo Comunale: “Come se avessi vinto una guerra”. L’incontro con Pio XII, che voleva conoscerlo: “Sua Santità il Papa e sua santità Santino”. E il mondo del professionismo: “Meno facile e meno felice. Mi mancò qualcuno che mi insegnasse come allenarmi e come correre. Mi mancò anche qualcosa, un po’ di fortuna. Alla Freccia Vallone fui ripreso a poco dal traguardo, alla Liegi-Bastogne-Liegi giunsi ottavo dopo sette belgi, al Giro d’Italia sfiorai due volte la vittoria. Nel 1959 corsi la Vuelta con Coppi nella Tricofilina”.
Livio Trapè ricorda “i nostri matrimoni, il mio a Montefiascone, il suo a Firenze, poi però insieme nel viaggio di nozze, da Sanremo a Barcellona e a Palma di Maiorca”, ricorda “le feste di popolo a Montefiascone, la prima per la sua vittoria mondiale a Frascati, la seconda per i 60 anni della mia olimpica a Roma, lui non aveva più la maglia iridata, gliene rifacemmo una, al volo, qui a Montefiascone, poi la sfilata lungo il corso su un’auto d’epoca”, ricorda anche “quando Santino raccontava della tappa del Bondone al Giro del 1956, per il freddo perse la sensibilità, la testa, la vista, scese di bici ed entrò in una casa”, ricorda “le sue qualità di scalatore e fondista, invece in pianura soffriva”, ricorda che “a Montefiascone avevamo una pista in terra battuta, 300-350 metri, con le curve sopraelevate, a un chilometro dalla cattedrale, lì si organizzavano riunioni con Magni, Messina, Terruzzi e Rigoni, lì ci allenavamo noi ragazzini, di sera, quasi di nascosto”.
Il finale della corsa di Santino è stato difficile anche per un fondista – il 31 ottobre avrebbe compiuto 90 anni - come lui. Un tumore alla prostata, inoperabile, lo costringeva a disagi e sofferenze. In silenzio, in surplace, continuava a pedalare. Fino al traguardo.
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