C’è un non detto anche nel tremendo eccidio dei ciclisti ammazzati. Un non detto che passa quasi sempre in secondo piano di fronte all’enormità di tante morti assurde, ultima quella del povero Rebellin. Il non detto è sovrastato da quanto tutti diciamo esplicitamente, gridando con quanta forza abbiamo in corpo, e cioè che tutti questi funerali assurdi non sono più accettabili, che la sicurezza dei ciclisti va garantita al più presto - almeno cominciando il lavoro, e magari anche facendola pagare cara a questi killer incoscienti, quando non ubriachi e drogati. A forza di dire queste cose, ci dimentichiamo di aggiungere però quel non detto abbastanza spiacevole per noi ciclisti, ma a dir poco doveroso.
Diciamo persino che tanti di noi devono imparare a rigare dritti per strada, ammettiamo che tanti di noi sono stupidi e arroganti, però non arriviamo mai a dire che non tutti siamo ciclisti allo stesso modo. E allora, a mente più fredda, mi sento in dovere di aggiungerlo io, perché sono tra i colpevoli di omissione, dopo aver preteso tutta la sensibilità e il rispetto necessari per chi usa la bicicletta. Senza più giri di parole: noi ciclisti amatoriali, più o meno forsennati, più o meno fanatici, non c’entriamo proprio niente con quell’altra schiera di ciclisti, presunti tali, sedicenti tali, che infestano i centri delle grandi città e che davvero sono di un’altra razza. Una razza inferiore, in questo caso possiamo dirlo liberamente, perché non entrano in gioco fattori umani, culturali, sessuali. Sono inferiori perché non hanno il cervello, punto e a capo.
Chi abita in estrema provincia, in cima alle montagne o nei villaggi di riviera, magari fatica a capire, ma basta che anche questi cittadini finiscano una volta, per qualsiasi motivo, a passeggiare sui marciapiedi di Milano o di Firenze, di Roma o di Bologna, eccetera eccetera, per avere tutto più chiaro. Il ciclista di ultimissima generazione, il ciclista partorito in laboratorio dalle nuove scienze green, ma prima ancora dai furbastri di mode&tendenze, ha scoperto la bici solo dopo averla vista sulle riviste patinate del bel mondo, delle City, della finanza, dell’informatica avanzata, pagine dove si dice che i nuovi stili di vita prevedono la bicicletta come fantastico modo di porsi e di affermarsi. La bici come cavallo di troia per essere sempre wow. La bici glamour. La bici lanciata in giacca e cravatta (anzi no, ultimamente la cravatta è out), la bici con lo zainetto di Prada in spalla, la bici con il casco in carbonio, la bici con la scarpa giusta, la bici rigorosamente e tassativamente a scatto fisso, magari monocolore, oppure con gli ottoni e gli allumini lucidi, con il manubrio da corsa alla rovescia, meglio senza parafanghi. Vestita questa divisa d’ordinanza, il ciclista che ha tutti i requisiti in regola, tranne il cervello, parte alla conquista del centro e comincia la sua opera di devastazione: devastazione della nostra immagine e della nostra reputazione, dico di noi ciclisti normali, sparsi sulle strade del Paese, in campagna e in montagna, al mare o a fondovalle. Lui no, il nuovo dandy metropolitano si limita agli spostamenti brevi, casa-ufficio, ufficio-apericena, evitando accuratamente le piste ciclabili o peggio ancora la strada normale, quelle sono volgari, le usano i falliti senza stile e senza appeal, no, il loro ciclismo si fa zigzagando sui trenta all'ora tra le vecchiette che escono dal panettiere, la mammina che spinge il passeggino, i pensionati che portano a spasso il cane (o vengono portati a spasso dal cane). Più il marciapiede è centrale e frequentato, più loro esibiscono il loro nuovo mondo a scatto fisso, sulla bici rivisitata dal designer di grido. Più la grigia borghesia li manda al diavolo, più è emozionante la loro affermazione e la loro gratificazione. Poi pazienza se ogni tanto centrano uno di quegli inutili birilli, pazienza se parte un femore o una clavicola (purtroppo, il più delle volte della sciura o del nonno, raramente del cicliscatto, termine composto che non è tecnico, significa soltanto ciclista mentecatto).
Ecco, la finirei qui, con le descrizioni e le ricostruzioni. Mi preme solo precisare una cosa, sottolineandola due o tre volte in rosso: cari potenti che dovete - magari, forse, chissà - affrontare la questione della morte in bicicletta, sia ben chiaro che i ciclisti per sport o per lavoro non c’entrano nulla con questi imbucati fricchettoni. Il fighetto del centro, discendente diretto dei paninari e degli yuppies di altre epoche, non ha nulla a che spartire con noi. Questa gentaglia non rispetta niente e nessuno, fa della trasgressione su e giù dai marciapiedi la sua estetica e la sua libidine, contro natura e contro il buonsenso, finendo lui sì per diventare pericoloso quanto le macchine e i camion di cui parliamo sempre (magari non sono così assassini, riconosciamolo, ma quanto a delinquenza non arrivano secondi).
Perciò sia chiaro, a voi potenti e potentati: non usate questi improbabili per negarci il diritto alla protesta, non servitevi della loro strafottenza per negarci attenzioni e riguardi (più che altro: leggi e regolamenti). Siamo i primi a riconoscere che quei damerini metropolitani non meritano nulla. Ma siamo i primi a disconoscerli, a rinnegarli, a tenerli debitamente distanti. Parliamo di due modi e di due mondi sempre a due ruote, ma agli antipodi per cultura, storia, sentimento, passione. Dunque, mai più, davvero mai più, anche solo osare certe parole ascoltate persino davanti all’assassinio di Rebellin, ma sì, le solite, trite e ritrite, “però anche voi ciclisti siete farabutti sui marciapiedi e nei sensi unici delle città, l’altro giorno uno mi ha fatto il pelo e mi ha pure mandato a quel paese”. Non siamo noi, non è di noi che si parla. Noi siamo tutti Rebellin, ad andature diverse, ma con la stessa anima. Vediamo almeno di non fare confusione, lasciamo fuori dai discorsi quelli che non c’entrano nulla. E finalmente vediamo di passare dalle chiacchiere, dalle cerimonie, dalle ipocrisie, ai fatti concreti. Grazie dell’eventuale interessamento.
da tuttoBICI di gennaio