Non è nemmeno il caso di sottolinearlo, parte sempre lo stesso disco: il nuovo Giro d'Italia sarà bellissimo e durissimo. Bisogna dirlo ogni volta, guai a dire il contrario, guai arrischiarsi ad avanzare una critica: la grancassa suona sempre lo stesso spartito, servilmente e docilmente, perchè così vanno le cose e così devono essere.
Stavolta va segnalata però una grossa novità: stavolta è vero. Il Giro del 2023 realmente è bellissimo e durissimo. Purtroppo, si registra l'effetto boomerang del monotono coro di ogni anno: dire che stavolta è davvero così può persino non essere più credibile, perchè tanto lo si dice sempre, perchè tanto è sempre così.
Invece è fondamentale – e piacevolissimo – in questo caso far emergere la differenze: rispetto a tanti Giri, anche recenti, quello del 2023 torna finalmente ad essere “La corsa più dura del mondo nel Paese più bello del mondo”. Senza se e senza ma. Non è più una patacca, se Dio vuole lo slogan pubblicitario corrisponde alla realtà. E il prodotto venduto è davvero quello reclamizzato.
Poi si sa come funziona: il Giro d'Italia è un bene di famiglia, un rito antico e intramontabile, proprio come l'albero di Natale. E come davanti all'albero c'è la zia che vorrebbe più festoni, il nonno che vorrebbe le palle rosse, il cugino imbucato che vorrebbe le palle gialle, così anche stavolta non mancheranno i rilievi personali.
Io, nel mio piccolo, trovo soltanto che 70 chilometri di cronometro – divisi in tre frazioni – siano comunque un po' troppi e un po' troppo incisivi, il mio dosaggio ideale balla tra i 40 e i 50, ma anche da questo punto di vista restiamo nel campo del teorico e dell'eventuale: tutti sappiamo che 70 chilometri con un superspecialista in gara, diciamo il nome a caso Evenepoel, possono essere spaventosi
in termini di distacchi, mentre in caso di cast livellato, senza grandi specialisti, l'effetto diventa decisamente meno contundente.
E così, torniamo a precipizio sulla solita questione di tutti i Giri: belli o brutti che siano, facili o difficili, duri o molli, tutto dipende da chi li corre e da come li corre. Qui abbiamo uno spartito fenomenale, dall'inizio alla fine: bella l'idea di partire con 18 chilometri a crono, buona per fare subito una classifica seria, suggestione pura il ritorno a Campo Imperatore nei primi giorni, incredibilmente feroce l'ultima settimana, con tanto di tappone verso le mitologiche Tre Cime di Lavaredo che non mancherà di solleticare le malinconie di noi italiani, rimembrando quel giorno di tormenta del 2013, col nostro ultimo campione in maglia rosa all'attacco per una vittoria solitaria, e figuriamoci se c'è bisogno di fare il nome.
Ma torno al discorso chiave: anche il percorso più prestigioso perde tutto il suo fascino se al via non abbiamo un parco-campioni all'altezza. Senza suonatori degni della musica. E su questo, al momento, ci ritroviamo sulla testa un puntone di domanda alto come le Tre Cime. Certo non avremo Pogacar e Vingegaard, cioè la mejo razza dei grandi giri. Ma qualcuno e qualcosa bisognerà che i signori del Giro s'inventino. A costo di portarli qui a forza, sotto scorta.
Anche perchè la risalita nelle classifiche mondiali della fama e del prestigio si fa sempre più urgente. E anche perchè, sia detto in anticipo, Davide Cassani e la sua Emilia-Romagna stanno lavorando duro per portarci il Tour in casa, non nell'anno 3000, ma nel 2024. Nel caso, bisognerà che il Giro trovi un modo perchè non si noti troppo la differenza.