“La vertigine della salita” è, apparentemente, un ossimoro. La vertigine, tradizionalmente, appartiene alla discesa, è della discesa, è la discesa. Quel misto di paura e libidine, rischio e godimento, strizza e gioia, capaci – appunto – di regalare brividi e pelle d’oca. Invece la salita implica fatica e sacrificio, dunque pentimento ed espiazione, se non sublimazione e santificazione.
Riccardo Barlaam cavalca la contraddizione in termini. Per lui la salita è mistica e non solo fisica, spirituale e non solo muscolare, ascetica e non solo atletica. Per lui “l’ascesa del corpo verso l’alto, verso la conquista di una salita, porta con sé una sorta di elevazione dello spirito. Forse per questo da sempre sulle montagne si innalzano santuari, chiese, croci, statue di santi, madonne”. Poi però ci sono anche la solitudine, la bellezza, l’impegno, “quel mosaico di colori, linee, curve, tonalità di luci e di blu cielo e di bianco nuvole e di verde che colpiscono lo sguardo e l’anima”. E il tutto è affascinante, seducente, vertiginoso.
“La vertigine della salita” (Edidiclo, 2016, ristampato e ridistribuito da “il Giornale”, 2021) è un prezioso libriccino tascabile (tasca di maglia ciclistica) di 96 pagine (9,50 euro), che non si data e non invecchia. “Le piccole considerazioni sull’ebbrezza del pedalare verso l’alto” rimangono a dispetto dei tempi che cambiano, quelli dai piedi alla cima di un Tonale o di un Pordoi o di un Gavia, a dispetto forse anche del mezzo, bici da corsa o gravel o perfino elettrica, a dispetto comunque dell’età, se non con le dovute variazioni legate al tema.
Barlaam filosofeggia, com’è nelle intenzioni della collana (“Piccola filosofia di viaggio”, che va – per dirne due – da “La vocazione di perdersi” a “L’arte di perdere tempo”). Qua e là, una citazione a sostegno (“Non importa quanto tu sia forte, ciò che importa di più quando fai una salita o quando scali una montagna è che tu sia autentico”, Maurice Herzog), un’opinione a confronto (“Chi più in alto sale, più lontano vede. Chi più lontano vede, più a lungo sogna”, Walter Bonatti), una confessione letteraria (“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”, Marco Pantani a Gianni Mura).
“La vertigine della salita” si legge e si rilegge, non necessariamente dall’inizio, non istintivamente tutto d’un fiato, non perché non sia chiaro o facile, ma per ricordare, per imparare, per elevarsi, per scollinare. Le salite si fanno e si rifanno. Ogni volta è una nuova volta, è un’altra volta.
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