Ormai è un rito italiano: arriva la primavera, tornano le rondini, si scatenano gli ormoni, e puntualmente abbiamo Simon Yates in cima ai pensieri del Giro. Anche stavolta, neanche il caso di dirlo: cronometro spaziale a Budapest e di nuovo tutti qui a dire apperò, quest'anno Yates sembra davvero pronto per.
La tentazione di considerarlo nuovamente favorito, magari più dello stesso Carapaz, si è rifatta forte. E' un trappolone che ormai lui ci tende tutte le volte che arriva al Giro. Memorabile quello del 2018: viene fuori come una belva sull'Etna (alle volte le combinazioni: la prossima sfida), quindi vince tre tappe (Campo Imperatore, Osimo, Sappada), sembra davvero il momento suo, poi arriva la giornatona di Bardonecchia e lo raccolgono col cucchiaino. Il botto che fa, quella volta, smuove valanghe e slavine in tutta l'alta Val di Susa.
Andando avanti nel tempo, come una moda primavera-estate, puntuale la tentazione di credergli e puntuale la sua smentita. Fino all'anno scorso, basta rivedere la moviola, più o meno sempre lo stesso film.
Yates è il maitre che ti fa stare da Dio per tutta la cena, poi quando vuole portare lui la torta in tavola inciampa nel tappeto e la fa volare in faccia alla contessa De Robertis, adorabile festeggiata del galà. Yates è il carrozziere che ti rimette a nuovo la macchina dopo il violento sinistro, guarda qui che lavorino, dimmi se non sembra nuova, poi portandotela fuori dal capannone rifà la fiancata contro lo stipite del portone.
Yates lavora benissimo, fa tante cose notevoli, fa quasi tutto alla perfezione, ma alla fine il campione che sarebbe fa sempre un passo indietro e lascia campo libero al mitologico impiastro.
E allora, vogliamo credergli anche stavolta, sulla parola, sulla fiducia, sulla logica di una crono stratosferica?
La tentazione è fortissima. Dirò di più: Yates meriterebbe pienamente tutto il nostro affetto, perchè sarebbe anche un modo di contraccambiare l'affetto che lui ogni anno dimostra nei confronti del Giro e dell'Italia. Ma.
Ma stavolta, caro il nostro Simon, personalmente non voglio cascarci. Non subito. Non metterò immediatamente la zampa nel trappolone. Ne ho già lasciate troppe. Preferisco aspettare. Adotterei il sano criterio del baratto nel deserto: prima vedere cammello, poi dare tappeto.
Dopo tutto, lo scetticismo non è dettato dalla cattiveria: diciamo che a forza di prendere musate poi diventa difficile lasciarsi andare. Diciamo le cose come stanno: amico Simon, tocca solo a te. Lo devi al pubblico italiano, che troppe volte hai illuso e disilluso, lo devi al tuo team-manager Brent Copeland, che nei tuoi confronti ha sempre dimostrato pazienza da monaco tibetano, lo devi, in definitiva, al trentenne che stai diventando. Tempo per chiarire cosa e chi diventerai non ce n'è più. In questo Giro puoi solo chiarire cosa e chi sei davvero. Una volta per tutte.
Nel frattempo, perdona la diffidenza. Il giudizio è sospeso. Stavolta fino a Verona, non prima. Le cambiali in bianco sono tutte scadute.