Ma che strane giornate stiamo osservando, e per piacere lasciamo fuori per un attimo le guerre e le pandemie. Nell'ultimo weekend abbiamo visto Eriksen tornare nella nazionale danese e segnare un gol dopo due minuti, a nove mesi appena dal buio calato sulla sua vita in una partita dell'Europeo. Incredibile, come una fiaba inverosimile, trama e finale buoni per mandare a letto tranquilli i bambini cinquenni. Eppure fiaba reale così superbamente compiuta.
In contemporanea, Sonny Colbrelli conosce lo stesso buio dopo una volata in Spagna, anch'egli viene fatto nascere una seconda volta dall'angelo di turno, disteso su una strada, e adesso vive tra le angosce e le speranze di Eriksen, come curarsi, se tornare in bici, coltivando il sogno segreto di uno stesso finale, magari non proprio primo nel Velodromo di Roubaix, comunque primo in qualche gara da qualche parte. O primo anche solo a un raduno di partenza.
Sono storie parallele che parlano di cuore, ma in un modo tutto particolare, per niente convenzionale. Il cuore è sempre essenziale nelle vicende di sport. C'è il cuore non-organo che evochiamo in mille modi e in tutte le salse, perchè davvero la passione è pura faccenda di cuore, di quel cuore indefinibile e immateriale che batte dentro di noi: è la passione del cuore che muove il primo dei campioni come l'ultimo dei tifosi. Ma le stesse imprese, lo stesso lavoro quotidiano, le stesse sfide di tutte le gare pretendono sempre - come ci piace dire - un grande cuore. Senza cuore, quel cuore, nessun talento arriva da nessuna parte.
E poi oltre al cuore non-organo c'è il cuore vero, motore primario ed essenziale di qualunque esercizio fisico, organo sovrano delle prestazioni migliori e alla rovescia anche delle peggiori.
Ad Eriksen e a Colbrelli non è mai entrato in avaria il cuore immaginario, di quello ne hanno da vendere, più ancora Sonny, che scegliendo il ciclismo ha scelto la disciplina in cui davvero ne serve di più, perchè si finisce dopo tutto per adorare la fatica, ma ad entrambi è toccato il tradimento del cuore muscolo, del cuore organo, con tanto di vera e propria morte personale, almeno per pochi secondi.
Eriksen è ripartito da dov'era rimasto, raddoppiando con un gol la gioia del suo cuore non-organo, dato che non c'è come rinascere per gustare il doppio o il triplo le cose principali della propria vita. Colbrelli è ancora nel limbo dell'attesa, senza sapere ancora da dove ripartirà, come ripartirà. Iniziando da dov'era rimasto, oppure in un luogo e in un modo completamente diversi. Anche per lui, però, vale sopra qualunque cosa questo fatto già di per sé miracoloso, e cioè comunque ripartire.
Si è detto che la storia di Eriksen ha avuto più titoli e più clamori di quella del nostro Colbrelli, perché il danese è un calciatore e l'italiano è un ciclista. Un po' di sano vittimismo ci sta, da parte nostra. Ma sinceramente credo e temo che abbia prevalso il peso degli avvenimenti, il contesto pubblico, dei due drammi: Eriksen in un campionato Europeo, dentro a uno stadio, davanti ai milioni di telespettatori, Colbrelli in una corsa minore, lontano dal grande pubblico. E a quel punto, c'è poco da negare, per la maggioranza dei giornalisti scatta in automatico la regola più scontata: tanta audience tanto spazio, poca audience meno spazio. Come se le storie fossero diverse. Come se il significato fosse diverso.
Eppure non c'è valutazione giornalistica, nessuna legge dello spettacolo, che possa giustificare due pesi e due misure: Eriksen e Colbrelli, Colbrelli e Eriksen, sono uniti con pari dignità in una prova comunque di sofferenza estrema e di rinascita meravigliosa. Restano co-protagonisti, al cinquanta e cinquanta, delle più grandi storie sportive di questo 2022. La gente vera lo coglie, senza trucchi e senza inganni. Non ce n'è bisogno. Nessuna differenza, nemmeno se il finale sarà diverso, nel cuore sensibile di chi ha cuore davvero.