Milano, 19 marzo 1968, all’alba. E’ il giorno della Milano-Sanremo, 288 chilometri. All’Hotel Andreola c’è anche la Salvarani, lo squadrone diretto da Luciano Pezzi e capitanato da Felice Gimondi. “La camera numero 19 – racconta Dino Zandegù - era quella di Fausto Coppi. L’avevo chiesta sperando che il letto, o il materasso, o il cuscino compissero il miracolo di trasformare un brutto anatroccolo come me in un elegantissimo cigno, o airone, come era Coppi. Lui, di Milano-Sanremo, ne aveva vinte cinque, a me ne sarebbe bastata una. Ma il direttore dell’albergo, pur confessandosi sinceramente dispiaciuto, mi disse che non poteva assolutamente darmi quella camera: ‘Per rispetto verso Coppi e il ciclismo’. Mi affidò la numero 18 e aggiunse che più di così non poteva fare. Ero tentato di tenere la porta della camera aperta per poter ricevere più facilmente gli influssi e le vibrazioni positive, ammesso che ci fossero ancora, del Campionissimo, ma poi, per una questione di privacy, adesso si dice così, rinunciai”.
Sveglia alle sei e mezzo, colazione alle sette. “Quando feci per andare nel salone della colazione – ricorda Zandegù – vidi il mio compagno di squadra tedesco Rudi Altig che aveva intercettato un vassoio di rapanelli. Rudi, ma che fai? Me li mangio, disse, sono buonissimi. E se li mangiò tutti, con un gigantesco pinzimonio di olio e sale. Io, inorridito, preferii i miei soliti caffellatte e biscotti, panini con il burro e la marmellata, omelette e un bel cucchiaio di miele. Mi sentivo in grande forma. Al Giro di Sardegna volavo: avevo vinto due tappe e una semitappa, la semitappa era lunga più di 160 chilometri, se fosse stata tappa intera sarebbe stata di 320, ci facevano fare fatiche degne di Ercole. Non Ercole Gualazzini, ma Ercole il greco. E Marino Basso, il mio nemico pubblico e privato numero 1, di tappe ne aveva vinte soltanto una. Poi alla Tirreno-Adriatico avevo rifinito la preparazione, piazzandomi ma nascondendomi. Tanto che qualche giornalista mi aveva inserito nella rosa dei possibili vincitori della Sanremo, e la cosa mi aveva inorgoglito, mi pare di ricordare che mi ero lasciato andare anche a qualche proclama, tipo quel ‘chi vuole arrivare secondo si metta alla mia ruota’, come era solito dire Raffaele Di Paco”.
La partenza alle nove e mezzo. Ancora Zandegù: “A dare il pronti-via era stato chiamato il grandissimo Costante Girardengo, che di Milano-Sanremo ne aveva vinte sette, e se lo avessi saputo prima, avrei dormito nella sua camera, anzi, con lui. La corsa fu battagliata a una media di quasi 42 chilometri all’ora. E’ vero che si scendeva da nord verso sud, ma non era in discesa. Sembrava che avessimo fatto una scommessa, che perdessimo il treno, che ci scappasse la pipì. Quattro uomini in fuga, poi l’inseguimento, il raggiungimento e – sul più bello – via altri sette corridori. Ma io non c’ero: ero un codardo, le responsabilità mi frenavano, mi frenavano anche i pensieri, mi dicevo: se vinco poi mi monto la testa, se vinco poi mi smontano la testa, se vinco poi devo chiedere un aumento di stipendio e non so da che parte si comincia, se vinco poi mi separo, se vinco poi non vedo più le mie sette sorelle, insomma, cose così, che mi svuotavano le gambe. Invece nei sette fuggitivi c’era Altig. Che in volata trionfò sul francese Grosskost, sul mio quasi compaesano Durante e il belga Sels velocisti, su Poulidor che non è vero che era l’eterno secondo perché stavolta arrivò quinto. Io rimasi nel gruppo, finii ventisettesimo, dietro a Basso ma – scusate se è poco - davanti a Eddy Merckx”.
L’importante è saper trasformare le sconfitte in lezioni. Zandegù: “Smaltita l’ennesima delusione, partecipai alla campagna del nord, che era molto al nord, in Belgio. Memore della Milano-Sanremo, la mattina del Giro delle Fiandre, 249 chilometri, di nascosto da Pezzi, mi feci portare nella camera dell’albergo un piatto di rapanelli con olio e sale, attribuendogli quei poteri magici che avevano spinto Altig alla vittoria. Riluttante ma determinato, li mangiai tutti, i rapanelli, con un gigantesco pinzimonio. Risultato: a Gand, fra la partenza ufficiosa e quella ufficiale, volevo già ritirarmi. Avevo i rapanelli tutti sullo stomaco. Poi, piano piano, a uno a uno, un muro un rapanello, un muro un rapanello..., riuscii finalmente a digerirli e conclusi la corsa al diciassettesimo posto, neanche male, a un minuto circa da Godefroot che aveva preceduto Altig, aggiudicandomi lo sprint del secondo gruppetto. Ma per me fu come se non più di una vittoria. Perché sapete su chi vinsi quello sprint? Avete indovinato. Proprio su Basso!”.