L’argomento è di assoluta importanza e al contempo di grandissima delicatezza. Porto profondo rispetto per la nostra mamma, l’Unione Ciclistica Internazionale, così come per il Segretario Generale la signora del ciclismo Amina Lanaya. Capisco anche che la sua esternazione abbia finalità buone, propositive, di visione per uno sport – il nostro – che non si può più permettere scandali di nessun genere, ma qui sta il punto.
Come un fulmine a ciel sereno, ecco che la signora Amina Lanaya non getta solo un sasso nello stagno, ma fa cadere un’intera diga. Lo sappiamo bene, non dobbiamo mai scordarlo, il ciclismo ha passato stagioni drammatiche negli Anni Novanta. Era in un ciclismo “fai da te”, dove quasi la totalità dei corridori faceva quel che faceva. Quel ciclismo è stato segnato da due momenti catartici: Madonna di Campiglio di Marco Pantani (noi italiani ci portiamo ancora oggi dietro quel dramma, quella tragedia, quella disgrazia e la stiamo pagando con una crisi profonda e tangibile in irrisori investimenti nel nostro sport) e nel caso Armstrong che ha travolto tutto e tutti, UCI compresa: è bene ricordarlo.
Stiamo vivendo da tre anni un ciclismo di rara bellezza, di grande spettacolarità, con atleti che non contano le pedalate, che non si affidano solo ai numeri dei misuratori di potenza, ma liberano il loro istinto e la loro fantasia in qualsiasi momento, rendendo il nostro sport bello, piacevole e attrattivo come non capitava da tempo. In questo contesto va collocata la sortita del direttore generale. In questo scenario vanno inserite le parole pesanti come pietre della Signora Amina Lanaya.
Ombre che tornano, anche se francamente, in questi ultimi anni, a livello di doping la situazione pare essere di molto migliorata. In questi anni è stato fatto molto per debellare questa piaga, per scovare i bari, per controllarli e reprimerli. Molto hanno fatto gli staff medici dei team di prima e seconda serie, ma in questa intervista rilasciata al quotidiano bretone “Ouest France”, Lanaya non solo apre ad una riflessione, ma riapre un caso, per non dire una ferita mai veramente rimarginata. «Di questi tempi, tutto passa attraverso l’intelligence, l’investigazione, la collaborazione con la Polizia – si legge sul quotidiano transalpino -. Non credo che i controlli antidoping siano il principale strumento di lotta contro chi vuole imbrogliare. Io privilegerei l’intelligence e l’attività di investigazione. Sto per dire una cosa estrema forse, ma io credo che ci sia la necessità di infiltrarsi. In gruppo, nelle squadre. E valutare la possibilità di pagare gli informatori. Giuridicamente possibile? Questo è da vedere, ma è il solo modo di riuscirci e potrebbe avere un effetto dissuasivo».
Parole che allarmano, che puntano l’indice su uno sport che in questi anni – almeno all’apparenza – ha recuperato una buona fetta di credibilità. Adesso questa sortita, un grido di allarme, che sta quasi a dire e ad ammettere che non è tutto oro quello che luce, che la situazione è drammatica, che qualcosa va fatto! Mette in guardia tutti, ma mette il dito nella piaga, con tanto di sale. La domanda che mi pongo è: perché? Perché dire che c’è bisogno di delatori, infiltrati o informatori? Fatelo, senza dirlo, senza comunicarlo. Volete combattere il doping? Fatelo, con tutti i mezzi a vostra disposizione e come meglio si ritiene farlo, ma comunicare al mondo intero che nel ciclismo di oggi per combattere i bari c’è bisogno di un intelligenze è perlomeno un gravissimo errore comunicativo.
Con questa uscita è probabile che si volesse mettere in guardia l’ambiente, il risultato però è un altro: ora il mondo tornerà a guardarci con sguardo sinistro. Non sono io a dirlo, ma le parole del nostro Segretario Generale, Nostra Signora del ciclismo.