Non è la prima volta che Johan Bruyneel torna a parlare del suo percorso al fianco di Lance Armstrong. Ogni volta, però, le sue parole lasciano un segno profondo: accade anche con la lunga intervista che il manager belga ha concesso al magazine Eddy.
Bruyneel, che oggi ha 57 anni e vive in Spagna, torna a parlare del periodo della US Postal e spiega: «Il doping, all'epoca, era una delle regole del gioco, solo che non era una regola scritta. Tutti noi correvamo il rischio che un giorno qualcuno infrangesse la legge del silenzio, ma non avrei mai pensato che avrebbe portato a un tale linciaggio contro Lance e me. A un certo punto era necessario colpire qualcuno di celebre per dare l'esempio, per essere sacrificato, e Armstrong era il bersaglio perfetto».
L’affondo continua: «Quando arrivi al professionismo, ti trovi in un mondo che molto presto ti mette di fronte a un bivio: o ti adatti e ti dopi, o sparisci. Il primo anno è difficile, ma tieni duro, poi ti rendi conto durante il tuo secondo anno che quelli che erano dietro di te tra i dilettanti, ora ti staccano. Improvvisamente vedi dei ragazzi intorno a te che diventano macchine al Tour de France. Potresti dici di no, mase lo fai sai che stai fallendo, che rinunci al tuo lavoro, alla tua passione, che butti via lunghi anni di sofferenza e difficoltà affrontati per realizzare il tuo sogno».
E ancora: «Quando ero un corridore, c'erano le iniezioni di recupero, il cortisone, il testosterone. Poi, quando sono diventato direttore sportivo, è arrivata l'EPO. Io ho smesso di correre nel 1998, sono diventato direttore sportivo nel 1999: c'erano direttori sportivi che sapevano benissimo cosa stava succedendo, ma preferivano fare come se nulla fosse, per non farsi prendere, ma io sapevo benissimo che - con o senza il consenso della squadra - i miei corridori si sarebbero comunque doprati. Quindi ho suggerito di mettere tutto sotto controllo. Dovevamo solo rispettare il limite del 50% di ematocrito».
Nel mirino c’è sempre l'Unione Ciclistica Internazionale: «I vertici dell’Uci lo sapevano. Ma hanno fatto tutto ciò che era in loro potere: non esisteva allora un metodo clinico per rilevare l'EPO, quindi hanno applicato la regola dell'ematocrito del 50%, il che dimostra che erano consapevoli che il prodotto dopante stava circolando. C’erano le trasfusioni di sangue e non erano rilevabili».
Anche la stampa, al corrente di tutto, ha la sua parte di responsabilità secondo Bruyneel: «Tutti i giornalisti sapevano. Alcuni si sono lasciati andare, ma tutti gli altri sono rimasti in silenzio. Non volevano infangare lo sport che stavano raccontando, avevano troppa paura di perdere pubblico».
Infine un segnale di cambiamento: «Sto osservando un cambiamento di mentalità. I giovani, oggi, non parlano nemmeno di doping, non entra nei loro ragionamenti, è del tutto estraneo alla loro cultura».
Potete leggere l'intervista completa sulla rivista Eddy.