Coppi? “L’ultimo rappresentante (e il migliore) d’un tipo di ciclismo che permetteva ad uno solo di affermarsi contemporaneamente in varie specialità”. Anquetil? “Il meno indegno erede di Coppi”. Baldini? “Il corridore più strano, più incompreso, più erroneamente valutato, più tifosamente e villanamente e, in un certo senso, più ingiustamente trattato”. Motta? “Ha tanto temperamento che a volte sfiora la bizzarria”. Zilioli? “Ci pensa su troppo”.
“Il Gatto Selvatico”: una testata, una redazione, un laboratorio di cultura. Nacque nel 1955, durò una decina di anni, fu così battezzato da un poeta, Attilio Bertolucci, il padre del regista Bernardo (“Novecento”, “Ultimo tango a Parigi”), e produsse articoli di sport (dal calcio al ciclismo, dalla boxe alle Olimpiadi) per una rivista mensile aziendale voluta da Enrico Mattei per l’Eni. Fra i giornalisti sportivi: Salvatore Bruno (alias Romano Salvadori), Corrado Sofia, Mario Medici, lo scrittore Alberto Bevilacqua. Fra gli altri: scrittori come Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise e Leonardo Sciascia, vignettisti come Mino Maccari, critici cinematografici come Pietro Bianchi.
Nel 2016, fuori commercio, l’Eni ha pubblicato un volume, “Inedita energia – sport in punta di penna”, saggi e racconti sportivo per “Il Gatto Selvatico” 1955-1965 (380 pagine quadrate), con la collaborazione di StampaSud e (per le immagini) dell’Istituto Luce. Ritratti, opinioni, commenti.
“Sopra le macerie del dopoguerra – si legge nell’introduzione – le imprese di Coppi, Bartali e poi di Berruti stavano lentamente restituendo al Paese quel prestigio internazionale smarrito dopo il secondo conflitto mondiale”. E ancora: “Non che lo sport di allora fosse più puro o privo di quei malanni che oggi sembrano soffocarlo: giocatori strapagati, mancanza di cultura sportiva, predominio del solito pallone sulle altre discipline erano argomenti già vivi e dibattuti nelle pagine dei giornali, in televisione e nelle chiacchiere da bar”. Eppure: “In quegli anni la cronaca e il racconto sportivo cominciarono a dar vita a un genere lettarario ben definito, di tipo ‘epico’, che riuscì ad appassionare gli italiani, a trasmettere loro ottimismo e voglia di ripartire”.
Ma il tempo è stato tiranno. In certe situazioni le cose non sono mutate, anzi. Cereno scriveva nel novembre 1955: “I nostri pistaioli non hanno piste. A parte il Vigorelli, che è il migliore anello del mondo, né Roma, né Torino, né Napoli posseggono una pista degna di reggere il confronto con quelle di città assai più piccole come Gand, Anversa, Liegi...”. In altre situazioni le cose sono andate ben diversamente dalle previsioni. Nell’agosto 1963 Salvadori ipotizzava: “Forse quello di quest’anno è stato l’ultimo Giro ciclistico di Francia. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo qualche anno fa. Ma il ciclismo è davvero alla fine: il ciclismo su strada, s’intende. Le strade non bastano più neanche per le automobili”. Sempre nell’agosto 1963 sosteneva: “Gli uomini si preparano ad andare sulla Luna, non si può convincere un ragazzo che la fama e la ricchezza si può ancora conquistare sudando sull’anacronistica bicicletta”. Nel gennaio 1965 notava: “In Italia si dice che ci sono molte incompatibilità fra ciclocross e ciclismo su strada. Per affrontare le corse ciclocampestri bisogna compiere, oltretutto, una particolare preparazione, in cui la bicicletta c’entra fino a un certo punto”. Ma spiegava: “Renato Longo, comunque, è un corridore completo: fiato, prontezza di riflessi, destrezza, gambe lunghe e forti che sembrano bielle d’un motore. Eccelle nei ciclocross, ma avrebbe potuto imporsi anche nelle altre specialità più nobili del ciclismo”. E giurava: “Il ciclismo è ora irrazionale”. In altre situazioni i giudizi si rivelarono azzardati.
Nell’aprile 1957 Bruno fu drastico: “In Italia, finito Coppi, non ci sono più campioni”. Aggiunse: “Si ha, a volte, l’impressione che il ciclista italiano non voglia più soffrire”. E concluse: “Evidentemente ha dimenticato cos’è il ciclismo”.
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