Soltanto dieci giorni fa eravamo in piena democrazia, ascendente anarchia, con un sacco di gente candidata a prendere il potere, tanti leader in ordine sparso, ciascuno con l'ambizione e la pretesa di mettersi a comandare quanto prima.
Ecco, appunto: la primavera di Praga qui al Giro è già finita. Undicesima tappa e ci ritroviamo nel pieno di una feroce dittatura, con questo despota colombiano che soffoca sul nascere le velleità di qualsiasi avversario, ricorrendo ai mezzi più crudeli, senza accusare crisi di coscienza e sensi di colpa. Questo Bernal non ha il cuore di panna, proprio no. Più comanda e più vuole comandare. Non si accontenta mai, è prepotente e cattivo, se vede un nemico in difficoltà non prova alcuna pietà, anzi si accanisce e cerca subito il colpo di grazia.
Chiedere a Evenepoel, chiedere a Ciccone (se poi magari si evitava un attacco fuffa prima del crollo, magari faceva migliore figura), chiedere un po' in giro tra i capi dell'opposizione, cosa significa mettersi di traverso. Si rischia grosso, si rischia di farsi molto male. Si rischia tutto.
Il problema è che giorno dopo giorno questa dittatura si consolida sempre di più e diventa sempre più soffocante, sottraendo spazi vitali e speranze residue a chi sogna di buttarla giù. Questo Bernal esercita un controllo occhiuto e impietoso, sguinzagliando i suoi scherani a tutte le ore del giorno, in tutte le zone, senza concedere nulla, neanche l'illusione di una intenzione o di un sogno. Prima Ganna, poi Narvaez, quindi Moscon, il suo corpo di guardia esegue gli ordini alla perfezione, non lascia niente al caso, un apparato forcaiolo che tiene d'occhio tutti quanti e quando è il momento interviene randellando a destra e a sinistra.
A questo punto c'è il serio rischio che anche i più coraggiosi comincino a porsi qualche dubbio, a perdere forze, a crederci poco. I più irriducibili sono al momento Vlasov, il nostro indomito Caruso, il tenace Carthy, l'indecifrabile Yates. Si piegano, ma non si spezzano. Almeno finora. Sopportano, incassano, cercando si evitare le dure retate del satrapo colombiano. Si barcamenano come possono, aspettando momenti migliori.
Sì, ma quando? Se già adesso la dittatura appare così solida e invasiva, come pensare che possa incrinarsi proprio nell'immediato avvenire, con l'arrivo delle montagne, là dove Bernal ha sempre imposto la sua legge nel modo più sfrontato?
E' un cupo pensare, ammettiamolo, per gli slanci democratici del Giro. Per la libertà di movimento e di espressione. Qui c'è il serio rischio che tutto venga soffocato sul nascere, prima ancora di uscire allo scoperto, perchè quello non concede niente a nessuno. Ad ogni occasione non si nega il gusto sadico di schierare i suoi gerarchi e poi di intervenire in prima persona, col pugno di ferro, senza pietà.
Per dirla tutta, l'impressione è che soltanto due nemici ormai avrebbero la forza di abbatterlo.
Il primo è un altro della sua risma, un dittatore tale e quale a lui, ma non è qui, sta lavorando a una dittatura tutta sua, in Francia, e si chiama Pogacar. Quindi, pura ipotesi, pia illusione, senza alcun fondamento reale.
Il secondo nemico è qui, sta muovendosi nell'ombra, nessuno lo nota, ma di fatto rappresenta il vero incubo del truce Bernal: il mal di schiena. Questo, più dei rivali su piazza, sembra al momento l'unico ostacolo che possa realmente mettersi di traverso, facendo traballare il regime.
Ma diciamoci la verità, fuori da tutte le metafore: è elegante, è leale, è giusto sperare che Bernal cada per un mal di schiena?