Fortunato, il babbo, ma tutti lo chiamavano Pietro, Pietro come suo padre, come se lo avesse sostituito, come se ne avesse continuato il lavoro e dunque la vita. Regina, la mamma, che nome più bello e importante non poteva esserle regalato, lei trovata dalle suore alla ruota degli Innocenti, dove si abbandonavano i neonati non voluti o per i quali non si avevano i mezzi di sostentamento. Artemisia e Armando, la sorella e il fratello maggiori. Poi lui, Alfredo. Tutti nomi, quelli dei figli, che iniziavano con la A: un piccolo lusso, che non costava neanche una lira.
Nacque a Firenze, Alfredo, e non a Calenzano dove stava la famiglia Martini, perché fu un parto difficile. Regina fu portata alla Maternità, l’Ospedale di Santa Maria Nova, nel centro di Firenze. Un altro lusso. Da lì in poi cominciarono le ristrettezze, le limitazioni, i risparmi. Se fosse una tappa: di montagna. Se fosse un’altimetria: in salita. Se fosse una strada: a tornanti. Ciclismo, era inevitabile: sport povero per i poveri.
Oggi, cento anni fa, nasceva Alfredo Martini. Tra campioni e campionissimi, tra Aironi e Leoni, tra uomini di ferro e cavalli di acciaio, tra locomotive umane e trulli volanti, tra camosci d’Abruzzo e pulci dei Pirenei, Martini è stato (è, sarà) il ciclismo. Non per i risultati da corridore, pur capace di conquistare una tappa al Giro d’Italia e indossare la maglia rosa, vincere il Giro del Piemonte che aveva il prestigio di una grande classica e un Giro dell’Appennino che aveva la durezza di un campionato mondiale. Non per quelli da direttore sportivo, attento e astuto, più Ulisse che Achille, così illuminato da guidare il primo svedese, Gosta Pettersson, al trionfo nel Giro d’Italia. E neppure per quelli da commissario tecnico, e oggi i suoi ragazzi che partivano azzurri e arrivavano iridati si riuniranno, affiancati come i colori dell’arcobaleno, per ritrovarlo, ricordarlo, rianimarlo.
Martini ha dato, alla bicicletta e al suo sport, poesia. Poetici i suoi racconti. Poetici i suoi insegnamenti. Poetiche le sue lezioni. Poetiche perfino le sue intuizioni. Mentre scrivevamo “La vita è una ruota” (Ediciclo), di cui lui sapeva e non sapeva, ma immaginava, sospirò: “La bicicletta meriterebbe il Nobel per la pace”. Ci provammo, con quelli di “Caterpillar”, il programma di Radio Rai 2. E non ci riuscimmo solo perché il regolamento del premio più importante e nobile al mondo non lo prevede. Martini aveva il dono di anticipare i tempi e le istituzioni.
Aveva tanti doni, Alfredo. Era un uomo di popolo, disinvolto nel frequentare saloni e salotti, ma più agiato sulla strada e sui marciapiedi, nelle osterie di paese e nelle case – appunto – del popolo o nelle società operaie. Era un uomo elegante, nel vestire e nel parlare, anche se aveva fatto solo le elementari, perché la retta dell’Istituto Cicognani di Prato, dove aveva studiato Curzio Malaparte, erano troppo alte per la famiglia di un contadino del Mugello, poi operaio fuochista alla Richard Ginori di Colonnata di Sesto. Era, soprattutto, un uomo. Teneva scolpita in mente, e nel cuore, l’ammonimento impartito dal padre di Elda il giorno in cui si fidanzarono: “Noi non abbiamo nulla. Abbiamo soltanto la dignità, alla quale teniamo molto. Lei si regoli di conseguenza”.
Martini ripeteva: “Il ciclismo non appartiene ai giochi, come il calcio, la pallacanestro o la pallavolo. Il ciclismo è un esercizio molto più complesso”. Soffrire le pene dell’inferno per la fame e la sete, sputare l’anima su una salita o sul pavè, mangiare la polvere su uno sterrato, scendere da una montagna con le mani ghiacciate. La squadra, la solitudine, la fuga, l’inseguimento, la fatica. Le ambizioni, le tentazioni, le certezze, i miraggi, i traguardi. Già, i traguardi. Cent’anni, cent’anni fa e cent’anni oggi, un altro bel traguardo.
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