Un ciclismo fermo non ferma le idee che lo compongono, anzi le agita. Per quando si tornerà a correre, prevale la preoccupazione che molte cose saranno cambiate o cambieranno, in particolare per un prevedibile ritiro di svariati sponsor. Leggo di molte prese di posizione, osservazioni e proposte, ma ancora non trovo il “mi piace” su cui cliccare, assalito invece dalla tentazione di dire anch’io la mia, pur non vantando competenze appropriate.
Trovo discutibile l’idea di estendere la categoria dei Giovanissimi ai tredicenni (G7) facendo slittare di un anno tutte le altre (Esordienti 14-15 anni, Allievi 16-17 anni, Juniores 18-19), per compensare una ridotta stagione 2020 che, secondo alcuni, impedirà agli atleti di concretizzare i risultati sperati, privandoli, come è stato anche scritto, dei loro “sogni”.
Sono categorie di “transito” e di normale formazione psico-fisica, dove i “sogni” da coltivare, più che le vittorie, dovrebbero essere quelli del poter gareggiare, di essere accolti e seguiti anche con potenzialità e prestazioni modeste, potendo fare sport senza trascurare la scuola, lasciando solo al tempo e alla maturazione del fisico decidere fin dove arrivare.
Più volte è stato denunciato che il difetto maggiore del nostro ciclismo nazionale sarebbe quello di correre troppo, con precoce specializzazione e ansia da prestazione, producendo anzitempo l’affievolirsi dell’impegno al sacrificio e agli obiettivi a lungo termine, in molti casi arrivando “spolpati” alle categorie più alte.
A questo io continuo a credere, e se per colpa della pandemia si dovesse arrivare agli Under con un anno in meno di attività, non escludo che un apparente danno possa diventare addirittura un giovamento per la vita sportiva dei nostri ragazzi.
Under 23 che, invece, questi sì, eccezionalmente e per un anno soltanto, potrebbero meritare una stagione in più nella categoria per coltivare quei risultati utili a coronare i sacrifici di chi ha scelto la carriera sportiva con la speranza che una passione possa diventare professione e giusto successo. Un anno in più, dove il “sogno” ed il “risultato” hanno effettivamente bisogno l’uno dell’altro.
Il Coronavirus ci obbliga a ricercare soluzioni al di fuori degli schemi più tradizionali, tuttavia, il “congelamento” delle categorie, per le sue implicanze internazionali, rimescolamento delle regole organizzative delle gare e gestione delle società, per quanto possa rispondere a singole questioni, complessivamente mi pare possa avvicinarsi alla classica toppa peggiore del buco.
Per il resto, più che della mancata stagione o quasi, dei singoli corridori, penso potrebbe essere più utile preoccuparsi del mantenimento in vita delle stesse società ciclistiche, a cui mancheranno risorse economiche importanti per il prosieguo dell’attività. A sostegno delle quali non basterà una netta riduzione degli oneri di base (affiliazioni, tesseramento, tasse, ecc.). Io penso sarà necessaria anche una revisione dei parametri organizzativi per ottenere una riduzione dei costi senza compromettere la sicurezza, una sorta di “norme attuative Covid-19” per la stagione in corso e di sicuro per quella prossima. Riconsiderando i chilometraggi per assecondare gli scompensi atletici che vanno profilandosi, nonché la scelta di percorsi semplificati, meno pretenziosi, compatibili alle mutate possibilità economiche, alle possibili complicanze autorizzative, alle nuove condizioni di sorveglianza e assistenza.
Data l’incertezza di quando si potranno di nuovo programmare le gare, non escluderei l’utilità di chiedere ai Ministeri competenti, oppure facendo accordi diretti con le province e le regioni, di accorciare a 15 giorni i termini di presentazione delle richieste di autorizzazione anche per le gare extra Comune, agevolando le istruttorie col silenzio-assenso degli Enti proprietari delle strade.
Ammesso che si possa davvero riprendere l’attività prima dell’estate, troverei in ogni caso indispensabile, oltre alle misure di sostegno ipotizzate dai vertici federali, la ridefinizione dei calendari regionali in base alle disponibilità rimaste da parte delle singole società organizzatrici, unificando al massimo gli sforzi e le risorse, un vero gioco di squadra, per non compromettere anche l’ultimo scorcio di stagione, evitando di mortificare l’impegno e le attese degli atleti.
Sarebbe saggio riprendere a mano anche le politiche di sostegno al volontariato. Chi ci garantisce che l’anno prossimo, oltre le questioni già ricordate, una parte dei dirigenti e soci delle società medio-piccole o di base, non gettino la spugna perché toccati nelle loro condizioni personali e familiari? Cassa integrazione, disoccupazione, sconvolgimenti affettivi, quanto potranno incidere nella disponibilità all’uso del proprio tempo libero?
L’art.1 dello statuto federale recita: «la FCI considera il volontariato quale base insostituibile della propria attività tecnica, organizzativa e funzionale». Un richiamo netto, che andrà ripreso proprio nel momento che il nostro ciclismo avrà più bisogno. Il volontariato, una risorsa da risvegliare con la stessa intensità di quando i nostri nonni e i nostri padri, alla fine del ’45, tra i cumuli delle macerie delle città bombardate, organizzarono le corse della riscossa.
Per i Professionisti le previsioni tracciano scenari piuttosto foschi. Da più parti, si fanno proposte di provvedimenti o di riforme più o meno possibili, più o meno plausibili.
Senza alcuna semplificazione dei processi in atto e sottovalutazione delle eventuali soluzioni intermedie, personalmente, in ogni caso, penso che la riforma migliore sarebbe la controriforma del WorldTour, ovvero, la sua cancellazione.
Il WorldTour nasce essenzialmente dalla volontà di commercializzare il ciclismo professionistico, con un circus tipo “Formula 1”, dal quale ricavare nuove risorse attraverso la vendita dei diritti televisivi.
Soldi che l’UCI aveva pensato unicamente per se stessa, per le proprie manie di grandezza e di potere, sconfinando discutibilmente oltre i suoi compiti istitutivi, federazione delle federazioni, per la disciplina del ciclismo internazionale. Un progetto cresciuto in modo empirico, senza l’avvallo degli organizzatori e la scialba acquiescenza delle federazioni nazionali e dei gruppi sportivi.
Anno dopo anno, regole su regole e costi stellari, per un obbrobrio organizzativo inevitabilmente fallito per l’impossibilità (oggettiva) di sottrarre agli organizzatori anche solo parte dei loro proventi televisivi.
Una situazione inconcludente e sconvolgente al tempo stesso che, oltre a danneggiare le Professional, ha spinto anche verso la costituzione di pseudo alternative quali i gruppi Continental, inutili via di mezzo.
Non solo, il calendario WorldTour ha pure massacrato le corse professionistiche di tanti Paesi europei, certamente l’Italia, rendendole non più convenienti perché se non sei WorldTour i corridori buoni non te li mandano, e se te li mandano sono quelli che nessuno o quasi conosce. Niente più che dilettanti trasformati in professionisti giusto per fare numero.
Gruppi sportivi che gestiscono milioni di euro con strutture societarie molto fragili, entità riflesse delle sole sponsorizzazioni, che si iscrivono alle federazioni dei Paesi più strani pur di spendere meno e con meno vincoli, non in grado, nella maggioranza dei casi, di offrire tutele minime ai propri corridori e ai propri staff, all’insorgere delle prime difficoltà economiche.
Una massa di circa 900 atleti di cui oltre la metà soltanto onesti lavoratori del pedale, che gareggiano in ogni dove e in ogni stagione, per risultati che sfuggono alla memoria e al cuore degli amanti del loro stesso sport. E questo sarebbe professionismo? Suvvia, siamo al più diffuso ciclismo di serie “B”, forse di “C”, un vero e proprio carrozzone di lavoro precario, dove tranne i grandi giri e le classiche monumento, tutto il resto sta diventando ciclismo virtuale, sempre di più confuso col virtuale vero, le gare web, buone per fare business, buone per combattere la noia degli allenamenti fatti in casa in tempo di coronavirus, ma dal sapore simile a quello che si può provare nel fare sesso con le bambole di gomma.
Per andare avanti, io credo si debba, per molti versi, “tornare indietro”, riscoprendo le gare che hanno un rapporto di intimità con la promozione del territorio e del ciclismo, con gruppi sportivi di nuovo liberi di scegliere a quali di queste partecipare, nell’ottica di valorizzare al meglio i propri corridori, i propri sponsor, gl’interessi nazionali.
Gli Emirati Arabi, per intenderci, offrono quattrini e immagine, ma poco per far crescere i nostri Giovanissimi e le garanzie per chi pedala e lavora nel mondo dei professionisti.
Cambiare non sarebbe semplice, né si potrebbe farlo ignorando i cambiamenti sociali e culturali nel frattempo intervenuti insieme alle opportunità di un ciclismo globalizzato. Penso si potrebbe e si dovrebbe provare a farlo, obbligati dagli sconvolgimenti che il Covid-19 porterà anche nel ciclismo, oltre a cambiare le condizioni sociali ed economiche dei prossimi anni.
Adesso che siamo fermi, riflettiamo seriamente sul come ripartire.