Volete sapere perché amo il ciclismo? Leggete e lo scoprirete. Storie così, solo qui.
La maledizione dei vecchi è quella di averne viste troppe, ricordarne molte, credere a poche e avere fede in qualcuna soltanto (anonimo).
“Pierino Favalli si ritirò all’ottava tappa del Giro d’Italia 1940 quando era in maglia rosa per colpa di un cazziatone – a suo parere – ingiusto” (Vito Ortelli).
“Nel 1976 Favalli fu invitato a festeggiare i cento anni della Milano-Torino, che aveva vinto tre volte consecutive, dal 1938 al 1940. Quando vide Bartali indossare la tuta azzurra della Rai, Favalli mi domandò: ‘Ma che fine ha fatto Bartali?, l’operaio?’” (Vito Ortelli).
“Quando gli fui presentato, Bartali mi disse: ‘Tu sei troppo bello e troppo ricco per diventare un campione’” (Dario Mantovani).
“Coppa Caldirola 1965, sponsorizzata Santagostino, la prima corsa internazionale di inizio stagione dei dilettanti, con belgi, francesi, italiani, tutti. Corro per la Nucleovision, maglia gialla e blu. Non sono ben preparato, perdipiù grasso. Così sto in gruppo tutto il giorno, spendo niente, all’ultimo chilometro sono lì, ai 400 esco, ma davanti mi trovo una macchina parcheggiata. Rapidissimamente penso: se freno, addio corsa; se non freno, addio me; aumentare, non ci riesco; non mi rimane che spostarmi dentro il gruppo. Di fianco c’è Zuccotti, che mi intima: sta’ lì. Allora faccio uno scattino, mi affianco a Vincenzo Mantovani, mi appoggio e lo spingo quanto basta, quella ventina di centimetri in modo da salvare la pelle e la volata. Partiamo. Primo Ferruccio Manza, a mezza ruota io, e a mezza ruota da me proprio Mantovani. Mi fermo tra moglie, direttore sportivo e amici. Con la coda dell’occhio vedo Mantovani che arrivando da me. So di averlo danneggiato. Ma io e ‘Cencio’ siamo amici, così, bluffando, gli dico: senti, so di averti stretto, dammi uno sberlone e la finiamo lì. Lui mi prende alla lettera e mi molla un cazzotto in faccia. Ma te se matt?, gli faccio. E lui: è una vita che avevo voglia di metterti le mani addosso” (Alberto Morellini).
“Giro del Piemonte 1966, dilettanti, maglia arancione e blu dell’Aurora Brollo. Tappa di Alessandria. Volata di gruppo. A 800 metri dall’arrivo sento la gomma afflosciarsi. Vedo un ragazzo con una bici, e ha la faccia del bravo ragazzo, non di un delinquente. Mi fermo, scendo, gli chiedo di fare cambio, a patto di restituirci le bici a fine corsa. Salgo, pedalo e arrivo al traguardo, dopo il gruppo, applauditissimo. Poi rivedo il ragazzo della bici, e ce le riscambiamo” (Alberto Morellini).
“Vinco i campionati italiani dilettanti nel 1968. Con la maglia tricolore vengo ingaggiato dalla Max Meyer e passo professionista. Ritiro in Riviera, a Laigueglia, direttore sportivo Gastone Nencini, che a proposito del Giro d’Italia, appuntamento e obiettivo più importanti della stagione, mi dice: tu per le tappe, Michelotto per la classifica. Dura una settimana, fino a quando arriva un telegramma federale: blocco olimpico per Città del Messico. Risultato: né Olimpiadi né professionismo” (Alberto Morellini).
“Passo professionista nel 1969 con la Eliolona. Ho 30 anni, ma è il mio primo Giro d’Italia, e comunque arrivo due volte quarto e una volta quinto. La cosa che più mi dà fastidio è che non ci sia mai stato nessuno a dirmi, per il 1970: un posticino te lo meriti e io un posticino te lo do. A dire la verità, uno c’è stato, Silvano Ciampi, ma poi la squadra non si è mai fatta” (Alberto Morellini).
“Riviera, Varazze, un mese a prepararmi con Pambianco, Van Looy e Sorgeloos. Una domenica Van Looy ci fa: avrei proprio voglia di vedere una partita di football. A Genova si gioca Sampdoria-Inter, decidiamo di andarci. Ma prima l’allenamento, però facciamo tardi, sull’Aurelia Pambianco pesta duro, due poliziotti motociclisti ci affiancano, ci superano e ci fermano. Patente, libretto, contravvenzione. Ma lei è Pambianco?, sì. Ma lui è Van Looy?, sì. E dovre state andando così di fretta?, a vedere la partita. Ah, allora seguiteci. E a sirene spiegate ci accompagnano allo stadio di Marassi” (Alberto Morellini).
“Il 1970 chiedo a Giorgio Zonca, industriale dei lampadari, mio amico e mio appassionato, di fare una squadra. Accetta. Comincio da corridore, gli spiego, poi prendo il tesserino e continuo da direttore sportivo. Accetta. Però intanto bisogna prendere un direttore sportivo con il tesserino, e gli faccio il nome di Ettore Milano. Ettore ci sta, ma chiede un piacere: andrebbe volentieri a una o più battute di caccia nella riserva degli Zonca. Risultato: Milano si trova così bene che rimane lì alla Zonca per 10 anni, e a me tocca andare a lavorare” (Alberto Morellini).
“Il primo nome che faccio a Zonca è quello di Meo Venturelli. Va forte come una moto, ma è matto come un cavallo. Capace di spedire la bici a Torino e poi prendere il treno per Reggio Calabria” (Alberto Morellini).