Il ciclismo è sport magico anche se non soprattutto dal punto di vista sentimentale, sennò mica saremmo qui a commemorarne i fasti poetici intanto che siamo immersi sino al collo nei fasti carnali del calcio e di altro sport di grana economica e di presa mediatica grossa. Il ciclismo è sport magico anche perché non solo è sopravvissuto alla motorizzazione, ma in tutto il mondo la sta efficacemente combattendo, intanto diffondendosi nei cinque continenti con gare per dodici mesi all’anno, coinvolgendo tante donne pedalanti e nutrendosi di tecnologie moderne intanto che vengono lucidati costantemente i suoi miti antichi.
Il ciclismo è sport magico, aggiungo adesso, più che mai dopo quel che mi è accaduto a Varese, c/o Alfredo Ambrosetti. Dunque il grande padre del grande meeting politico-economico di Cernobbio, evento di portata mondiale, ha offerto a Varese un meeting sportivo speciale. Una grande villa anzi un palazzo, tanti invitati a 1) ricordare i settant’anni da Superga, 2) ricordare i cent’anni dalla nascita di Fausto Coppi e i pochi giorni dalla morte di Felice Gimondi, 3) celebrare i lunghi e grandi fasti dell’Ignis basket. Purtroppo o per fortuna ho addosso gli anni giusti per essere testimone dei personaggi ed eventi chiamati alla ribalta della commemorazione. E così a Varese ho dovuto e (grazie) potuto, felicemente ancorché con dolenzie sentimentali forti e forte rovisti di memoria, parlare di quei due che pedalavano e di quelli là che giocavano a calcio e di quelli lì (molti i presenti dei vari magic teams del commendator Borghi) che giocavano a basket.
C’erano a Varese i figli di Coppi e c’era una figlia di Gimondi. Felice un giorno me la spedì bambina da Bergamo a Torino tramite un amico comune, con lei la sorellina, mi chiese di portare le pupe a conoscere Cabrini, il bell’Antonio passato alla Juventus dall’Atalanta, lo sognavano da tifosine. Sapeva che avevo già portato chez Cabrini le mie due figliolette per una teletrasmissione, ovviamente gli dissi di sì, io tifoso granata ma amico dei due, il ciclista e il calciatore. Norma e Federica Gimondi ricordano ancora quell’incontro, idem Cabrini, che apprezzò il mio duplice sforzo da non juventino (anzi). Ho ricordato questo con Norma dolcissima, ho offerto a tutti i miei ricordi speciali del Toro di Bearzot e Meroni e si capisce Mazzola nel senso di Valentino, ho ricordato a Bob Morse, forse il più grande cestista straniero arrivato fra di noi, quel giornalista che ancora non chiamavano gpo e che che ai trials preolimpici statunitensi in vista dei Giochi di Monaco 1972, in località Eugene, Oregon, Usa, gli spiegò nel suo poco inglese come era l’Italia della pallacanestro, cosa erano nel basket italiano Varese e l’Ignis, aiutandolo a dire di sì all’offerta di venire fra di noi. Lo guardavo dal basso in alto, lì a Varese, mentre gli sollecitavo la memoria e lui mi sorrideva e assentiva al suo scorrere.
Giornatona speciale, emozionante, commovente, da prova severa per chi ha un cuore stanco. Però splendida. Ed è accaduta persino una piccola magia che solo il ciclismo anzi il mio ciclismo si può permettere, secondo me, cioè la creazione di una realtà superiore, nella rievocazione, alla realtà diciamo reale, che si tratti di un’impresa eroica gonfiata dal mito superalimentato dal tempo o di una cosina piccolissima ma specialissimissima.
Il tutto può anche essere interpretato come mio rimbambimento attivo, e amen, non me la prendo, anzi lo considero un fiore all’occhiello della veste di fantasia in cui mi sono calato.
Dunque uno mi ha detto: “Tu non ti ricordi di me ma io sono Fezzardi, gareggiavo quando tu facevi il giornalista di ciclismo”. “Ma come no? Fezzardi, mi ricordo, sei tu che non ricordi quando dormii nella tua stanza”. “Non ricordo, no”. “Soltanto cinquantaquattro anni fa, penultima tappa del Tour, o forse terzultima, ero venuto nell’albergo tuo e di Gimondi a raccogliere materiale per la biografia di Felice pronosticato ormai vincitore, dormii lì perché avevamo fatto tardi e all’albergo mio lontano, dove era tornato, l’autista ormai stava per andare a dormire, sarebbe passato a prendermi il mattino. Tu dormisti poco, tossivi e tossivi, ricordi?”. “Vagamente. Perché eri con me?”. “Uno di voi si era ritirato, Felice mi disse che c’era il letto libero, ne approfittai. Pensa ad una cosa così adesso nel calcio, il giornalista e il divo del pallone”.
Fezzardi mi ha ascoltato, mi ha ringraziato per il caro ricordo. Non so se ha avuto pietà di me, del mio aggrapparmi a vivide cose lontane per sapermi vivo, forse sì, forse è stato semplicemente educato e gentile con un giornalista logorroico e suonatello. Sono andato avanti a ricordare, sempre secondo il mio sapere, e lui ha spesso assentito, ci siamo salutati, dopo un’ora mi sono sovvenuto bene di tutto ma era tardi, lui era già andato via, io ora mi confesso qui, per iscritto. Non era lui, quella notte, lui fra l’altro gregario di Gianni Motta, era un benemerito del quale proprio non ricordo il nome.
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