Lei, la bicicletta: “scuoti-ossa” e “piccola regina”, “grande trionfatrice” e “utensile di lusso”, angelica e satanica, ma anche “una scarpa, un pattino, siete voi stessi, è il vostro piede diventato ruota, è la vostra pelle cangiata in gomma”. E questo era solo l’inizio.
Loro, i ciclisti: “mattoidi” e “acrobati”, “clown” e, per come imparavano ad andare, “rarissimi” (imparavano alla prima lezione), “frequenti” (imparavano alla terza o alla quarta), “rari” (non imparavano prima della decima) e “zucconi” (non imparavano mai). E anche questo era solo l’inizio.
Stefano Pivato ha scritto “Storia sociale della bicicletta” (il Mulino, 252 pagine, 22 euro), due secoli e tre anni da raccontare, spiegare, illustrare, per rivelare, recuperare, interpretare questo ventilatore di umanità, questo moltiplicatore di benessere, questo distributore di emozioni nella sua geografia, religione, cultura. Come non stupirsi davanti al manifesto dei giovani mazziniani, socialisti e anarchici, che protestano: “Mentre il popolo tutto scioccamente accorre, con morbosa dilettazione, ad applaudire al miserevole spettacolo d’incoscienza e di sperpero d’energie che offrono tutti quei giovani ciclisti del Giro d’Italia, noi additiamo alla cittadinanza tutta tale forma di sport, come uno de’ tanti tranelli che l’attuale sistema di governo plutocratico e borghese ha teso all’inconsapevole dabbenaggine delle moltitudini”? Come non sbalordirsi davanti alla pubblicità “Carlo Marx, pneumatico dei giovani socialisti. Compagni ciclisti!, provate la gran marca rossa, invincibile, garantita”? Come non preoccuparsi davanti all’articolo su una rivista intitolato “Ciclisti, armatevi!”: “Nelle attuali condizioni della Pubblica Sicurezza in Italia, un buon revolver è indispensabile per i ciclisti. ‘La Bicicletta’ ha studiato tutti i diversi modelli ed ha trovato quello ideale nel revolver Bulldog a sei colpi, del peso di 300 grammi, del calibro 320”, “caricabile, oltre che a palla, anche a pallini per i cani”?
Docente di Storia contemporanea all’Università di Urbino, autore di altri libri sulla bici (da “La bicicletta e il sol dell’Avvenire”, Ponte alle Grazie, 1992, a “Sia lodato Bartali”, Castelvecchi, 2018), con rigore e profondità, ma anche con leggerezza e affetto, Pivato parte da un’affermazione di Gianni Brera: “Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia”.
Lo fa, in ordine cronologico, scattando dal biciclo fino alla bicicletta, analizzando la nuova religione che divide la gente in ciclofila e ciclofoba, occupandosi dei preti e delle donne, dei soldati e dei socialisti, delle corse e dei campioni, dei partigiani e delle staffette nella Seconda guerra mondiale, anche della bicicletta secondo gli scrittori: “Italiano e latino, versi vernacolari e aulicismi, fogli volanti e canzoni: la bicicletta fatica a rimanere dentro categorie spesso rigide come quelle della letteratura e della poesia: il suo fascino sta nella varietà simbolica e sociale che le forme poetiche e letterarie, anche quelle più inusuali, esprimono”.
Nell’ultimo capitolo Pivato va, volando, dal Dopoguerra fino a oggi, sottolineando il precipizio del 1960 (il boom economico, l’ascesa dell’auto e l’abbandono della bici) e la rinascita del 1973 (la crisi energetica, le domeniche a piedi, la bici come simbolo della nuova coscienza ambientale): “Al di là di ogni ideologia le due ruote, dopo una parabola durata oltre un secolo e depurata dagli eccessi dello sport agonistico, si pongono al centro di una nuova rivoluzione antropologica, anzi di un ‘nuovo umanesimo’ che, secondo Marc Augé, può far ritrovare all’uomo lo spirito dell’infanzia”.
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