VAN VLEUTEN, L'ALIENA

DONNE | 28/10/2019 | 07:00
di Giulia De Maio

Per la prima volta dopo tanto tempo le azzurre tornano a casa dai mondiali a mani vuote. Ci avevano abituato così bene tra titoli iridati e medaglie pesanti conquistate, tanto da salvare in più occasioni il bilancio della Nazionale, che è una no­tizia. Nello Yorkshire sono stati gli uo­mini a portarci in alto nel medagliere, mentre le colleghe hanno dovuto inchinarsi alla superiorità delle rivali marziane. Così, del resto, Elisa Longo Bor­ghini aveva definito Annemiek Van Vleuten du­ran­te il Giro Rosa, appellativo quanto mai appropriato dopo l’impresa che l’olandese è riuscita a compiere ad Har­rogate: 106 km all’attacco in solitaria su 149 di corsa, una cosa d’altri tempi.


La trentaseienne olandese in forza alla Mitchelton Scott ha attaccato sulla salita di Lofthouse, dopodiché tutte le altre big del ciclismo mondiale l’hanno rivista solo dopo la linea del traguardo. Con un ritardo di 2’15” l’ha tagliata la campionessa uscente e connazionale Anna Van der Breggen, che ha completato la festa orange; medaglia di bronzo per l’australiana Amanda Spratt, a 2’28”. Quarta ha chiuso la giovane e talentuosissima americana Chloe Dy­gert, che fenomeno si era dimostrata nella cronometro, battendo proprio Van der Breggen e Van Vleuten. La migliore delle nostre, ancora una volta, è stata Elisa Longo Borghini, che con Soraya Paladin è stata tra le otto che hanno provato in qualche modo a contrastare l’assolo dell’aliena in maglia arancione, e alla fine è riuscita ad arrivare quinta a 4’45” dalla nuova campionessa mondiale.


L’altra cannibale olandese, Marianne Vos, ha regolato il grosso del gruppo precedendo Marta Bastianelli che, come tutte le altre favorite, nei tre chilometri di salita del tratto in linea, che si sono rivelati decisivi, non è riuscita a tenere il passo della scatenata Van Vleuten che ha fatto saltare gli schemi di una corsa sulla carta già dura e da lei resa durissima. Dopo aver vinto gli ul­timi due Giri d’Italia, aver domato lo Zoncolan impiegando appena otto minuti più di Froome e l’Izoard, aver conquistato Strade Bianche, Fiandre e Liegi, il percorso disegnato da Anne­miek van Vleuten rasenta la perfezione.
«Oltre 100 km di fuga, sono una cosa folle e, in effetti, non era pianificato. Ho fatto la differenza in salita e ho tirato dritto, chilometro dopo chilometro ho capito che stavo facendo qualcosa di speciale. Mamma Ria è venuta a ve­dermi: sono molto orgogliosa di lei, da quando non c’è più mio papà non si muove più molto, a 71 anni viaggiare in aereo non è da tutti. È una donna speciale e vincere in questo modo davanti a lei mi ha regalato un’emozione straordinaria» sono le prime parole ri­lasciate da An­nemiek, dopo il commovente ab­brac­cio a mamma Ria, e aver indicato in corsa gli orecchini, d’oro of course, ultimo regalo di papà.

«Non ci credo, mi sono allenata tanto per arrivare pronta a questa sfida, pro­vo tante emozioni. È un sogno e il pubblico sul circuito è stato davvero fantastico. Ero uscita delusa dalla crono (era la detentrice del titolo, ha chiu­so al terzo posto a 1’52” da Dy­gert, ndr): direi che ho rimesso le cose a posto e con gli interessi. Dopo tanto lavoro, ora me la godo… Devo dire grazie alle mie compagne di nazionale che dietro hanno lavorato come stopper e sono contenta che sul podio sia salita anche la mia compagna di squadra Amanda Spratt» prosegue la fuoriclasse che si allena più di chiunque altra.
Il suo profilo Strava dice che da inizio anno è stata in sella per oltre 800 ore macinando quasi 23.000 km e 350.000 metri di dislivello. Si è preparata allenandosi con i compagni uomini e, for­se, più di alcuni di loro.

«A inizio stagione sono stata in ritiro con loro per riprendermi dopo la frattura alla rotula (in cui era incappata al mondiale di un anno fa concluso co­munque al settimo posto, ndr). Ma­cina­vamo 200 km di media al giorno con tantissime salite. Per resistere a ruota di Adam e Simon Yates al terzo giorno di training camp ho pianto da quanto ero stanca. Ma ne è valsa la pena. Mi pongo degli obiettivi e cerco di imparare dalle stagioni precedenti per migliorarmi di continuo. La Mit­chelton Scott ha creduto in me, dopo i Giochi Olimpici di Rio (cadde rovinosamente quando era involata verso il successo, ndr) i miei tecnici mi hanno detto che avrei dovuto concentrarmi sul Giro e mi hanno supportato al cen­to per cento per arrivare a vincerlo. Dal­lo staff alle atlete ognuno ha dato il massimo, senza lasciare nulla al caso. La loro fiducia mi ha dato una motivazione extra. Dopo la conquista della seconda maglia rosa consecutiva ho mes­so nel mirino la maglia iridata an­che se il percorso non era dei più adatti alle mie caratteristiche e l’Olanda poteva contare su diverse punte. I sacrifici non mi pesano, continuo a divertirmi, sia che mi trovi ad allenarmi a Passo del Foscagno o a Tenerife, dove passo tanto tempo. Il mio allenatore dice che sono bravissima a portare il mio corpo al limite e la migliore a riposarmi. Amo lavorare duro, ma non sono un’atleta perfetta e mi accetto così».

Viene da dire, chissà se fosse stata perfetta...
«Se corresse con gli uomini, rischierebbe di vincere anche con loro. La rispetto, ma lei a casa ha solo una bici, io una famiglia. E non cambierei la mia vita con la sua. La mia idea di ciclismo femminile non è la sua» ribatte a fine corsa Marta Bastianelli, che sognava il bis iridato a 12 anni dall’oro conquistato a Stoccarda 2007.

Qual è il segreto del ciclismo olandese? Ce lo spiega la ragazza di Wageningen, che l’anno prossimo è la candidata numero uno per ripetersi sul duro percorso di Aigle-Martigny e con le sue compagne di Na­zionale non vorrà farsi sfuggire neanche i cinque cerchi a Tokyo.
«In Olanda cresciamo andando in bici. Io da bambina percorrevo 12 chilometri per andare a scuola, tutti i giorni. I miei genitori non mi hanno mai accompagnato in auto, nemmeno se pioveva. Questo ti rafforza. In più, nella nostra cultura prendiamo il lavoro con grande responsabilità. Cerchiamo personalmente degli sponsor che ci supportino, troviamo il modo di andare in altura, di avere i mezzi migliori. Non aspettiamo che qualcuno lo faccia per noi. Io, Lucinda Brand, Marianne Vos, Ellen Van Dijk investiamo su noi stesse, consideriamo la nostra carriera co­me un’azienda di cui siamo le prorietarie e responsabili. Se vogliamo farla rendere, dobbiamo porci degli obiettivi e lavorare per raggiungerli. Non c’è un sistema che ci supporta, ma per me è anche me­glio co­sì».
Tornando a casa Italia, la delusione del CT Dino Sal­voldi non si può nascondere. Se è vero che la me­daglia nella staf­fetta mi­sta ci è sfuggita a causa della sfortuna, dal­la crono uscia­mo con le ossa rotte. Elisa Longo Borghini ha chiuso 17a a 4’35” dal tornado Dygert e Vittoria Bussi 35a a 6’28”. L’unica nota positiva è il quarto posto di Ca­milla Alessio tra le junior, undicesima e migliore delle nostre anche in li­nea, e l’ottavo di Sofia Collinelli contro le lancette.

Nella prova regina Elisa Longo Borghini ha fatto tutto il possibile, alzando bandiera bianca a 19 chilometri dal traguardo perché esausta, ma forse tatticamente avremmo potuto giocare me­glio le nostre carte puntando decisi sull’opzione veloce Bastia­nel­li. Un posto sul po­dio l’Italia in rosa lo meritava.

da tuttoBICI di ottobre

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