Di Coppi ce n’è uno solo, ma davanti a me ne ho due. Identici, come a guardarsi allo specchio. Riflettono su un padre immenso, che hanno conosciuto troppo poco per poterlo raccontare, ma in questi anni non hanno finito di ricordarlo, attraverso i racconti raccolti da una moltitudine di persone che non l’hanno mai dimenticato.
Coppi guarda Coppi e intanto parlano di lui, del Campionissimo, che è poi il loro papà. Un simbolo dello sport del ciclismo e non solo. Marina e Angelo Fausto detto “Faustino”, uno davanti all’altro. Una insieme all’altro, come a fare squadra: soprattutto famiglia.
Sono loro la memoria di un padre che ha unito l’Italia, prima di dividerla per una spettacolare rivalità sportiva con Gino Bartali che sarebbe diventata archetipo di ogni rivalità che si rispetti, e poi per un amore impossibile con una donna sposata sbocciato in un Paese non ancora pronto.
Oggi Fausto Angelo Coppi avrebbe compiuto 100 anni, ma loro, i due ragazzi, se lo sono goduto troppo poco: dodici anni Marina, solo cinque Faustino.
«Sto invecchiando con il ricordo della gioventù di papà – ci racconta Marina -. Di lui porto nel cuore ricordi vissuti in prima persona e altri ricostruiti in questi anni fatti di tantissimi racconti. Ho parlato tanto di mio padre, ma ho soprattutto ascoltato».
Faustino ascolta e annuisce. «Per me è stata la stessa cosa, anzi di più, perché io ero più piccino di Marina quando papà è venuto a mancare. Chiaro, mi sarebbe piaciuto avere più ricordi di papà, ma nel tempo ho incontrato talmente tanta gente che mi ha parlato di lui, che è come se l’avessi conosciuto un po’ meglio anch’io».
Che idea vi siete fatti: che tipo era Fausto Coppi?
Marina. «Una persona gentile e elegante: un gran signore. Per come me lo ricordo e per come me l’hanno raccontato era una persona estremamente disponibile. Papà amava stare con la gente. Sapeva di essere il simbolo del riscatto di tanti suoi connazionali, l’uomo che ce l’aveva fatta e con le sue vittorie è riuscito a portare un po’ di bene e serenità nelle case degli italiani».
Faustino. «Papà deve essere stato una gran bella persona, perché attorno a me, in questi anni, ho solo respirato amore. È chiaro che mamma (Giulia Occhini, ndr) me ne ha parlato fin quando ha potuto in un modo bellissimo e straordinario: lei ne era follemente innamorata, e ha vissuto nel ricordo di questo amore sconfinato fino alla fine dei suoi giorni. Oggi io vivo di quell’amore e di quell’affetto. E quando mi abbracciano, mi piace pensare che in realtà abbraccino lui».
Un’immagine.
M. «Io e lui allo stadio Marassi di Genova. A papà piaceva il gioco del calcio e quando poteva, soprattutto in inverno, mi portava allo stadio. Lo riconoscevano tutti e tantissimi gli volevano stringere la mano o gli chiedevano un autografo. Per questa ragione, nonostante non sapessi ancora scrivere, portavo qualche foglietto e una penna. Così lo aiutavo».
F. «Ricordo che era sempre di fretta, ma non sapevo che cosa facesse. Solo crescendo ho compreso che era un ciclista, e che ciclista. Ho nella mente poche immagini. Tra le più nitide quelle dell’ultimo Natale: mi regalò degli aeroplanini che aveva portato dal suo ultimo viaggio in Africa e una banconota da diecimila lire che conservo ancora gelosamente».
La gente guarda voi e vede Coppi.
M. «Siamo cresciuti entrambi nell’assenza di un padre che però non ha mai smesso di essere con noi. È come se il nostro grande papà sia ancora in giro per corse e non la finisse più di parlare delle sue gesta, delle sue imprese e della sua storia. Io e Faustino siamo Coppi: stesso naso e stesso sorriso. Uguali, ma a questo non ci ho mai dato troppo peso».
F. «Io e Marina, nonostante per anni ci si sia frequentati poco, abbiamo vissuto due vite parallele, quasi sovrapponibili. Oggi le nostre due famiglie sono una cosa unica e questa è la cosa più bella. Penso che di questo ne sarebbe orgoglioso e felice anche lui. L’assomiglianza? C’è e si vede. Occhi della mamma, viso di mio padre».
Un gesto.
M. «Le carezze che mi dava Gino Bartali. È stato davvero importante per me e la nostra famiglia. All’apparenza poteva sembrare burbero, ma era eccezionale, di una gentilezza infinita. Un uomo con un cuore grande così. Di lui ho ricordi dolcissimi, così come di sua moglie Adriana. Conservo una foto: lui con nonna Angiolina, soli in cucina, che aspettano affranti la sepoltura di papà».
F. «Siamo nel giardino di casa: io, lui e la mia piccola bicicletta con tanto di rotelline. Ad un certo punto papà decide di togliermele, mi fa salire in sella e mi aiuta a stare in equilibrio. Sento la sua mano forte che mi tiene sotto la sella, poi più nulla. Pedalo: sono solo…».
Il momento.
M. «Sia io che Faustino abbiamo sempre vissuto a Novi. Abitiamo entrambi nelle case di dove siamo cresciuti da bambini. Per anni non ci siamo frequentati: ognuno ha percorso strade diverse, per una vicenda che ha attraversato la nostra vita. Poi nel 1997 l’incontro. Un viaggio in macchina: non abbiamo più smesso di parlarci»
F. «Siamo entrambi molto grati a Candido Cannavò, grande direttore della Gazzetta dello Sport, che ci chiamò entrambi a Milano per un premio (La bici d’Oro) in onore di nostro papà. Passai a prenderla in macchina e andammo insieme a Milano. Per tutto il viaggio non la finimmo di parlare delle nostre famiglie e dei nostri figli. Dopo tanti anni di silenzio, avevamo molte cose da dirci».
Due donne, due madri.
M. «Mamma Bruna (Ciampolini, ndr) era una donna semplice e anche molto timida. È stata una vera mamma, protettiva e dolce, che ha sempre parlato bene del suo uomo: mio padre. Con Faustino non abbiamo mai toccato l’argomento delle nostre mamme: giusto così».
F. «Donna forte e possessiva, ma anche protettiva. Lo scandalo del loro amore non l’ho vissuto. Non ha mai smesso di raccontarmi di lui, di quanto fosse intelligente e curioso. Si dice che abbia portato il ciclismo in una nuova dimensione, anche scientifica, ma come mi ha raccontato la mamma, lui era un uomo proiettato in avanti, capace di imparare l’inglese e il francese da solo».
Mai andati in bicicletta?
M. «Preferisco camminare, soprattutto in montagna: sono pur sempre una Coppi».
F. «Ci vado, ma solo per fare qualche passeggiata: non sono Coppi».
Cosa non vi è mai andato giù?
M. «Una cosa è certa: papà non era un uomo né solo né triste. Rideva, me lo ricordo bene. E gli piaceva tantissimo stare in compagnia».
F. «Quando dicono che fosse musone, dicono una cosa falsa. Era timido e riservato, questo sì, ma di assoluta compagnia».
L’ultimo Natale.
M. «In quei giorni, come capita a tanti bimbi, mi ero presa l’influenza. A Santo Stefano mamma mi aveva portata a Varazze, hotel Genovese gestito dalla famiglia Bartolomeo Delfino detto Bertùlu. A Capodanno mamma viene raggiunta da una telefonata: papà sta male, molto male. Si parte in un amen. Mamma va a Tortona in ospedale, io da una zia. Poi la notizia della morte. Io ho la febbre, non vado al funerale, papà resta per sempre con me».
F. «È un’immagine fortissima: papà distesso sulla barella. Mi guarda e allungandomi la sua grande mano mi porge una carezza e si raccomanda: “Papo, fai il bravo…”, queste le sue ultime parole. Poi la barella, con quel lenzuolo più bianco della neve, viene caricata sull’ambulanza. Gli sportelloni si chiudono. Da quel momento solo e soltanto ricordi…».
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