Ad un certo punto ha visto l’inferno, dopo essere stato in purgatorio, ma per un paio di giorni si è regalato il Paradiso. «L’inferno l’ho visto da metà Tour in poi, dalla tappa numero 11 (la Albi-Tolosa, ndr) quando sono caduto e ho picchiato violentemente il ginocchio - ci racconta Giulio -. Una brutta caduta, il timore di non riuscire ad andare avanti, poi la resistenza, la voglia di non arrendersi e il dolore che scompare, ma si palesa quello alla schiena. È stata dura, ma ce l’ho fatta».
E il purgatorio?
«Quando arrivo secondo sul balcone delle ragazze, alla Planche des Belles Filles - aggiunge il 24enne abruzzese -, lì per un attimo sono tra quelli che son sospesi. Deluso, amareggiato per una vittoria che era alla portata di mano, ma finisce a Dylan Teuns. Sono stanco, avvilito, deluso come pochi. Poi l’imponderabile: il Paradiso…».
Dalle inedite rampe al 24% di questa salita dei Vosgi, Giulio è catapultato a sua insaputa sul tetto del mondo. La furiosa difesa di Julian Alaphilippe non è sufficiente al francese per fargli conservare il primato. Sei secondi benedetti bastano invece a questo ragazzo reduce dal Giro d’Italia, capace di vincere la maglia azzurra di miglior scalatore, oltre alla tappa del Mortirolo orfano del Gavia, per vestire il simbolo del primato.
La Planche Des Belles Filles è ormai, per il sentimento d’Italia, lo scrigno dei nostri msogni. Il Tour la scopre nel 2012 e Nibali arriva quarto tra i giganti (primo Froome), ideale preludio al primo podio francese. Sempre lo Squalo domina in maglia tricolore nel 2014, e tre anni dopo il tricolore sventola ancora grazie a Fabio Aru. Quest’anno, al termine di una tappa resa dagli organizzatori francesi ancora più dura da sette Gpm e con 4.000 metri di dislivello ma soprattutto con un chilometro finale inedito e durissimo sullo sterrato, ci manda in orbita con Giulio Ciccone, l’uomo in giallo per due giorni e per altri quattro anche maglia bianca.
«Quello è stato davvero un giorno pazzesco - ricorda oggi a bocce ferme il ragazzo della Trek Segafredo -. Ho vissuto al termine di quella tappa un’infinità di emozioni. Sfinito, deluso e amareggiato. Poi incredulo ed ebbro di gioia. Io, sconfitto ma in giallo. Sul podio più importante del mondo. Ho vissuto quel momento incredibile in tre atti. Prima via radio il direttore De Jongh mi dice che sono in giallo, ma subito dopo si corregge e mi dice: “No scusa, ho sbagliato”. Così mi sono cambiato e ho cominciato a scendere arrivando all’ultimo chilometro. Lì mi bloccano e mi dicono: “Fermati, hai la maglia”. Mamma mia. Non ci credo. Penso: “ma sono su Scherzi a parte? Vi state tutti prendendo gioco di me?” Sono però tutti troppo convinti: mi prendono di peso e mi riportano velocissimamente su per la premiazione. Pazzesco».
Ma come nasce quella giornata, appunto pazzesca? Come viene la voglia di partire subito di prima mattina in una tappa che solo a guardarla sulla carta fa venire il mal di gambe?
«Nella riunione ci dicono: oggi è la classica giornata da fughe. Il terreno c’è. Se avete le gambe, provateci. Dovevamo provarci in due, io e Bernard (Julien è il figlio dell’ex prof Jean François, ndr) e ci siamo riusciti. Io ho avuto ottime sensazioni tutto il giorno fino alla salita finale. Poi su quelle ultime rampe è stato Teuns ad essere il più brillante, ma alla maglia gialla non ci pensavo proprio. Neanche quando siamo arrivati ad avere 8 minuti di vantaggio. È vero, ad Alaphilippe dovevo recuperare 1’43”, ma nella mia testa c’era solo la tappa. Nel finale ho pure smesso di tirare perché sapevo che Teuns poteva essere più veloce di me. Se avessi pensato alla maglia, avrei collaborato fino alla fine… Per questo ero amareggiato, deluso: volevo almeno la tappa e invece mi trovavo lì senza niente in mano, ma con le gambe a pezzi e il morale sotto i pedali. Poi però ho spiccato il volo e mi sono ritrovato sul quel palco. Il Tour è una dimensione pazzesca, molto diversa da tutto il resto. Quel giorno è cominciato con la chiamata di papà: “Mi raccomando, oggi è dura. Io sono a casa dal lavoro (è impiegato alla Regione, ndr), ho preso un giorno libero per godermi in santa pace questa tappa”. E mi dice: “Anche mamma oggi sta a casa”. Come se si fossero messi d’accordo per assistere a qualcosa che nemmeno io potevo pensare di realizzare. Presentimento? Forse. Sicuramente tanta fiducia, e tanto amore».
E dire che non doveva neanche essere qui…
«Ho sempre amato le grandi corse a tappe, e il Tour era in cima ai miei pensieri: il sogno per qualsiasi corridore. Però lo sapete, la mia stagione era stata impostata sul Giro, anche se una piccola porticina verso la Francia era sempre rimasta socchiusa. E sono felice di aver vissuto quell’esperienza, che sicuramente mi servirà. Tre settimane di fatica, con i migliori corridori del mondo che si preparano tutti esclusivamente per questo immenso appuntamento. Io adoro anche il Giro, ma qui è tutto pazzesco. Basta vedere chi riesce ad entrare nelle fughe: sono tutti campioni».
Uno che subito aveva gettato acqua sul fuoco per proteggere il proprio puledro è Luca Guercilena, il gran capo della Trek Segafredo.
«Giulio ha fatto un grande Tour de France e di questo siamo tutti felici. È uno scalatore autentico. Un agonista nato, che più la tappa diventa dura, più lui diventa forte. Però bisogna lasciarlo crescere con calma, pensando che deve migliorarsi tanto. C’è da lavorare, e anche sodo».
E quando c’è da parlare di lavoro, Giulio non si tira indietro, e il responsabile delle performance, il 38enne basco Josu Larrazabal, coach-capo della Trek Segafredo (il team collabora anche con il Centro Mapei) ci sguazza come pochi.
«Giulio lo abbiamo visto bene al Giro d’Italia: nella seconda parte è andato meglio che nella prima. Non ha ancora 25 anni, però ha già al proprio attivo quattro Giri. È un ragazzo che sta crescendo benissimo e, se si dà un occhio ai dati, si vede chiaramente che più passa il tempo più lui va forte. Ha una soglia alta, nel senso della capacità di tenere uno sforzo a lungo vicino al massimo che puoi dare. Ma soprattutto, da scalatore, in una salita lunga è capace di fare dei cambi di ritmo e assimilarli».
Per Luca Guercilena e la Trek è un ritorno in giallo che rievoca momenti molto belli. Un ritorno al futuro: l’ultimo in giallo Fabian Cancellara, nel 2015.
«Al Giro d’Italia 2016, quando Giulio vinse la tappa in salita di Sestola con la maglia della Bardiani, io ero all’ultimo chilometro - ricorda Guercilena -. Non vi nascondo che mi aveva subito colpito... L’idea del Tour, dopo il Giro, è stata comune. L’abbiamo portato solo per fargli fare esperienza. In prospettiva, dovremo chiaramente lavorare molto sulle cronometro e sulla gestione della sua esuberanza. È un corridore istintivo, che si lascia guidare dal cuore, più che dalla testa. Oppure, possiamo anche dire che generalmente quello che ha in testa lo fa, ma per diventare un buon corridore in corse di tre settimane bisogna imparare a contenersi un po’, senza stravolgersi».
Per la causa, il prossimo anno, ci sarà anche un coach di assoluto valore. Un punto di riferimento come Vincenzo Nibali. Giulio, il ragazzo che si è vestito di giallo a sua insaputa, sa cosa deve fare per diventare grande.
«Vincenzo fa parte della storia del ciclismo, e io sono felice di poterlo avere al mio fianco. Rivalità? Neanche per sogno. Lui è di un altro pianeta, e io sono pronto a scoprirlo».
da tuttoBICI di agosto