Visto che non sembrano servire a niente appelli, convegni, suppliche, direi di inviare ai piani altissimi del potere questo semplice report (come piace parlare a loro) prelevato direttamente dall’ultimo Tour de France. La madre di tutte le tempeste, questa mitologica riforma che fa la guerra alle piccole squadre, si sta addensando sempre più vicina, sempre più sopra le nostre teste: vediamo se almeno dei semplici fatti, esaurite tutte le chiacchiere, possono servire ad accendere qualche lampadina sul cruscotto della logica.
Proprio le chiacchiere in questo caso non servono. È tutto lì da vedere, come un freddo risultato di un’esperienza condotta in laboratorio, empirica eppure molto scientifica. Basta il nome di Bernal. La sua bella storia ormai è patrimonio comune e diffuso. E come si arriva al lieto fine della grande favola, un ragazzino prelevato nei territori sperduti di Colombia e scaraventato piuttosto velocemente sul tetto dello sport mondiale? Con passi semplici, lineari, ponderati. Prima lo sbarco in Europa per un necessario ambientamento, quindi il passaggio decisivo in una squadra piccola, sottolineo piccola e non sgangherata, perché questo è il vero snodo: ci sono certe squadre piccole che effettivamente sono dei suk improponibili, ambientini buoni solo per magheggi e furbate, ma non è ovviamente queste che si vogliono difendere. Parlo delle Androni, che ogni anno si prendono la briga di scandagliare le periferie e di portare a galla i nomi più strani e sconosciuti. Così Bernal: Savio lo pesa per bene, lo mette sotto contratto, poi parte la fase dello svezzamento. O se vogliamo del liceo. Come nella vita, fare un buon liceo è la base per viaggiare spediti all’università. E guarda caso Bernal fa proprio questa strada. Dice, mica sono tutti Bernal. Dico: senza arrivare a Bernal, proviamo una volta a fare l’inventario dei corridori veri spadellati da queste botteghe di alto artigianato. Poi vediamo se lo sterminio programmato dalla nuova riforma non è un vero e proprio crimine della storia.
Nessun problema, se non vogliamo parlare solo del caso stratosferico di Bernal. Scendiamo pure di un gradino. Dico Ciccone. Anche Ciccone. Le sue belle stagioni nella Bardiani, con la pazienza e le amorevoli cure della Reverberi Factory, ed eccolo adesso lì in una grande team a fare le sue brave figure ad altissimo livello.
Non stiamo troppo a fare i sottili: lo so che per un Bernal e un Ciccone ci sono anche tanti bei bidoni riavviati alla pastorizia senza alcun rimpianto, ma questa è parte essenziale del lavoro: si semina tanto per raccogliere il meglio. Per cinque che restano a terra, uno decolla verso altri pianeti. È un lavoro, una funzione, un ruolo importantissimo. Di vitale importanza. Un lavoro che le mega-squadre d’alto bordo non si possono permettere di mandare avanti. Su, lo capisce anche uno scemo: quelli hanno altri problemi e altre grane per la testa, altro che mettersi a impiantare asili per crescere i bambini della bicicletta.
Sì, è un lavoro particolare. Che merita cura, passione, tanta pazienza. Tempo fa pedalavo in Franciacorta bordesando bordesando, quando su una piazzola laterale vedo ferma un’ammiraglia della Nippo Fantini. Guardo dentro e c’è Valerio Tebaldi, in attesa dei suoi corridori. Mi fermo volentieri, è un gigante buono e saggio che sta nel ciclismo da una vita. Prima con Corti, assieme ad Oscar Pellicioli, adesso nel team di Sciotti, dedica la sua vita proprio a questa missione: fare da padre, badante, balia, mamma e altro ancora ai ragazzini che sbarcano in Italia dai cantoni più remoti del mondo. Mi racconta che le difficoltà più grosse non sono farli pedalare forte (anche quelle, certo), ma riuscire a farli crescere come uomini in contesti tanto diversi dalle loro origini. “Certe volte - mi racconta - li vedo così in crisi che dico loro di saltare l’allenamento: vado a prenderli e me li porto a mangiare una pizza. Così, per sfogarsi un po’, magari anche per versare qualche lacrima”. Com’è come non è, quattro chiacchiere e saluti veri, poi riprendo il mio giro. Valerio mi stringe la mano e un po’ quasi si schermisce: “Quando incontro Claudio Corti, la mia soddisfazione più bella è dirgli una cosa così: dai Claudio, guarda Froome, qualcosa di buono in fin dei conti abbiamo fatto”.
È questa la vera sostanza della famigerata bega burocratica: siamo sicuri che la nuova riforma non arrivi come un tir fuori controllo nelle vetrine di queste botteghe, dove si lavora sul prodotto grezzo, cercando di tirarne fuori pezzi d’autore? La riposta la lascio ai supertecnici immersi da mesi nei loro brain-storming, sperando che il trionfo di Bernal serva un po’ anche a loro. A ragionare. Prima o poi, magari, possono farcela.