
“Da quando ho cominciato a lavorare prima con la Vittoria per il cambio-ruote e adesso per la Dimension Data come direttore sportivo, riesco finalmente a vedere i primi in salita”. Potrebbe aggiungere che, solo da quando le fa in macchina, si sta godendo le Alpi. Perché da corridore, intuendo quanto gli avrebbero fatto male, scrupolosamente le evitava.
Francesco Chicchi al Giro della Valle d’Aosta sgomma, ruggisce, ulula, stride, e si piomba, si precipita, si fionda, si incunea, e chiacchiera, ride, sorride, occhieggia, e incoraggia, esorta, consiglia, comanda. Fra allungare una borraccia ai corridori e allargare la strada con una clacsonata, si racconta. L’inizio: “Mio padre, cicloamatore. La domenica andavo alle corse. Tutto cominciò così. A sei anni la mia prima gara. Poi gareggiai tutte le categorie, ma sempre come se fosse soltanto un gioco. Da dilettante cominciai a fare le cose sul serio, ma mai troppo sul serio”. Le vittorie: “Vincevo, ma neanche tanto, sempre in volata tranne una volta. Era un circuito a Ponzano, al quarto anno da Under 23. Fuga di dieci corridori. A 3 km dall’arrivo fui preso da un inspiegabile raptus e attaccai, nessuno venne a prendermi, così finalmente ebbi tutto il tempo di gustarmi la vittoria”. Le volate: “Ero diviso a metà fra Cipollini e Petacchi. Cipollini credeva in me, mi aveva scelto come suo erede, ancora adesso mi dà consigli e comandamenti. Petacchi per tre anni è stato mio compagno di squadra e mio capitano, anche se quasi mai facevamo le stesse corse. L’unico rammarico della mia vita di corridore è stato quello di non aver ascoltato Cipollini al 100 per cento, e quindi di averlo deluso. Lui non riusciva a capire come potessi essere contento delle vittorie di Petacchi, né tantomeno come potessi essere contento quando, da avversari, Petacchi vinceva proprio su di me. ‘Semplice – gli spiegai -: siamo amici’. Invece Cipollini, chi osava batterlo, lo avrebbe ammazzato”.
Chicchi e il treno: “Ce lo avevo anch’io, alla Liquigas. Pensate: primo uomo Vanotti, secondo Sagan, terzo e ultimo Nibali. Incredibile, no?”. Chicchi e i compagni di stanza: “Da neoprofessionista fui abbinato a Roberto Petito e costretto ad azzerare tutto quello che sapevo e a ripartire da zero, anzi, ancora più sotto, ancora più indietro. Poi ne ho avuti tanti, dallo stesso Sagan fino a Bernal. E, lo giuro, non mi sono mai trovato male con nessuno”. Chicchi e il gruppetto: “Eisel aveva l’orologio incorporato. Era lui che faceva il ritmo, dettava l’andatura, prendeva i tempi. ‘Dai ragazzi – ci diceva -, possiamo rallentare quattro secondi’. La legge del gruppetto imponeva di andare a tutta in discesa, a tutta in piano e, almeno per me, a tutta anche in salita”. Chicchi e le borracce lunghe: “I francesi le chiamano ‘bidon collé’, le mie erano ‘Super Attak’”. Chicchi e se stesso: “Di errori ne ho fatti in quantità industriale. Ma degli errori ti rendi conto solo dopo averli commessi. E non subito, ma anche dopo un po’ di tempo, se credi veramente in quello che fai”. Chicchi e l’inverno: “Quando diventai campione del mondo pesavo 72 kg. Una volta in ritiro mi presentai a 81 kg. Ferròn (Giancarlo Ferretti, ndr), ad alta voce, davanti a tutti, domandò: ‘Ma chi è? Un nuovo meccanico? Un nuovo massaggiatore?’”.
Adesso Chicchi sembra più in forma di allora: “Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2019 ho partecipato alla Cape Epic, in Sud Africa, in mountain bike, prologo e sette tappe, a coppie. Io avrei dovuto partecipare con Acquaroli, Petacchi con Chiarini, e invece ‘si va noi!’, gli ho proposto. E abbiamo corso insieme. Alla fine della prima tappa, stremati, ci siamo guardati negli occhi per trovare una soluzione. E l’abbiamo trovata: andare più piano. Ma non pianissimo: alla fine siamo arrivati fra le prime 80 di 800 coppie. Di questo passo, magari un giorno farò perfino la Maratona dles Dolomites. Più che una mountain bike, mi ci vorrà una e-bike. Gliel’ho già detto a Petacchi: è il nostro futuro”.
A Chicchi piace fare il direttore sportivo: “Ho 11 ragazzi, intelligenti e volenterosi, che mi ascoltano. Gli dico che nelle corse si può vincere e si può perdere, ma è più facile perdere, perché ne basta uno solo per arrivare secondo. Comunque per una squadra come la nostra non è indispensabile vincere, a me interessa solo che i compagni mettano il capitano in condizione di vincere. Su questo sono molto esigente. Sono quattro italiani e sette stranieri, fra gli stranieri si privilegiano gli africani neri perché più bisognosi. Qui ci sono due etiopi e un ruandese. Pensate: quello che guadagnano, lo mandano a casa. In questo, sono io che imparo da loro”.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.