Ieri, sul Gavia, c’era un matrimonio. Quello fra il Cielo e la Terra. Succede sempre così quando le montagne sono avvolte dalla nebbia e le cime custodite dalle nuvole. In alto, in segreto, in silenzio, Cielo e Terra si sono incontrati e si sono uniti. Un antico amore. Il Giro d’Italia non era fra gli invitati.
Il Gavia è un passo che il ciclismo ha conosciuto soltanto nel 1960. Era accompagnato da una storia crudele: 18 alpini, tra i 21 e i 23 anni, precipitati su un camion militare, il 20 luglio 1954. In quella curva, spaventosa, su quella strada, sterrata, contro quelle rocce, ostili, una targa di marmo ne ricorda la tragedia. Fu Vincenzo Torriani a convertire il Gavia alle biciclette, fu Imerio Massignan il primo ad arrampicarsi, fu Charly Gaul a conquistare la prima tappa. Le montagne sono divinità, a volte spietate, a volte vendicative. Così, per quell’affronto a forza di pedali, il Gavia sembrò voler punire Massignan infliggendogli tre forature in discesa che lo fecero disperare e piangere e sembrò voler castigare Gaul contagiandolo di fantasmi che per anni lo avrebbero tormentato e ossessionato.
Il Gavia è fatto così: poco vegetale e molto minerale, una cattedrale gotica di rocce stanche friabili, un lago nero e un lago bianco che archiviano storie e tramandano leggende, una galleria dove i corridori – di qualsiasi livello, categoria, classe – hanno la sensazione di tornare indietro nel tempo, fin nel grembo materno. Le montagne sono grandi madri. Il Gavia – il Passo della testa del morto, uno dei suoi vecchi e temibili soprannomi – conserva una micro tundra artica, effetto di primordiali rivoluzioni telluriche e glaciali. E’ per questa ragione che su quei tornanti, infine in quell’anfiteatro di vette alpine, ci si sente sempre ospiti, mai abitanti.
E così si sentirono i corridori nel Giro di 31 anni fa, quando all’improvviso il Cielo e la Terra si imbiancarono – un matrimonio d’alta quota –, fra gli invitati c’erano il Vento e il Gelo, fra gli imbucati l’olandese Johan Van der Velde si presentò per primo al Rifugio Berni, qui si paralizzò per l’accoglienza polare e arrivò al traguardo, un po’ a piedi, molto su un pullmino, un po’ in bici, 47 minuti dopo un altro olandese, Erik Breukink. Quando Van der Velde poté rendersene conto, se ne rallegrò: aveva visto la morte in faccia, ma era ancora vivo. “La leggenda del Gavia” (di Giacinto Bevilacqua, Alba edizioni, 104 pagine, 12 euro) è un libriccino che ricorda quell’apocalisse.
Ieri, sul Gavia, c’era un matrimonio. Quello fra il Cielo e la Terra. E piovevano confetti. Come fiocchi di neve.
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