Rottamato il Giro Sbadiglio, il Giro d’Italia 2019 si apre con una tappa sontuosa, cattiva, pesante, ma anche parecchio squinternata. A dimostrazione che niente finisce in modo logico e chiaro, nel dopogara è tutto un correre alle calcolatrici e ai pallottolieri, per capire come sta messa adesso la situazione in classifica generale.
Volendo essere delle vere carogne nei confronti del valoroso Polanc, che secondo opinione generale c’entra con la maglia rosa finale come Franzelli c’entra col Processo, mi pare si possa concludere questo, dopo il primo mattatoio d’alta quota: il Duello diventa un po’ obeso. Taglia forte. E’ un Quattrello, un Cinquello, in teoria persino un Settello.
Questa la verità. Anziché fare una prima chiarezza, il Gran Paradiso (consiglio d’amico: venirci, è un gran paradiso) crea un tale ingorgo di classifica da bloccare sul nascere qualsiasi certezza. Non è che i duemila (e passa) semplicemente riaprano il Giro: lo spalancano. Porte, finestre, porte-finestre: entra aria fresca da tutte le parti. Ogni risultato è ancora possibile. Più che altro, imprevedibile.
Un bene un male? Limite o valore aggiunto? Lascio aperta e spalancata persino questa atavica questione, se cioè sia meglio la narrazione chiara e semplice, inzuppata nell’epica, con un dominatore e un bravo antagonista, del genere Coppi-Bartali, anche solo Indurain-Chiappucci, oppure se sia preferibile un caotico equilibrio da società collettivista, in cui l’individuo viene sacrificato al valore dominante della massa.
Ciascuno si tenga i gusti suoi: qui, proprio quando si cominciava la messa a fuoco dello schema classico, Roglic contro Nibali, Nibali contro Roglic, ritorna di prepotenza la variante nebbia in Val Padana, tutti contro tutti, vince l’ultimo che resta in piedi.
Certo, Roglic rimane davanti. Certo, Nibali lo tampina senza sconti. Ma proprio questo loro interfacciarsi e rinfacciarsi continuamente ogni singola pedalata provoca effetti collaterali incontrollabili. Gli altri s’infilano nella bega senza pudore e senza soggezioni. Basta vedere il risultato: da Zakarin in giù, passando per Mollema e Carapaz, per Maika e Landa (rispettoso velo sulla scalogna insolente ai danni di Lopez), sono di nuovo tutti accalcati. Tra Roglic e Landa, il primo e l’ultimo del Settello, l’allegra combriccola è compressa in due minuti e mezzo. Può piacere o non piacere, ma se non è un Giro spalancato questo, non esiste Giro spalancato.
Dice: i soldati semplici fanno baldoria perché i due generali sono troppo impegnati a disegnare i piani di guerra. Questa idea che Roglic e Nibali finiscano per marcarsi troppo, lasciando campo agli intrusi, rilancia alla grande la famosa tiritera riportata su tutti i libri dei luoghi comuni, tra i due litiganti eccetera eccetera.
Può darsi. Non lo si può escludere. Non adesso. Non ancora. Però andiamoci piano con i proverbi della nonna: se una certezza ancora resta in piedi, nei grandi giri, è che alla lunga comunque il migliore viene a galla. Con la strada libera o con gli ingorghi da ferragosto, senza avversari o con troppi avversari.
Anche se non c’è più il Gavia ad incombere sul grande concerto rosa (sicuro: tagliato per neve, comunicazione al più tardi lunedì mattina), resta in piedi comunque uno spartito perfetto, perfetto per valorizzare alla fine il grande solista. Tanta, tanta salita.
C’è una lepre, Roglic, e adesso non c’è un cacciatore solo che vuole stendere in salotto la sua pelliccia: ce n’è un battaglione. Tutto è possibile. Se non fosse che.
Domenica 2 giugno, Verona: cronometro finale di 17 chilometri.
Se non impagliano la volpe in anticipo, è la volta che la volpe impaglia i cacciatori.
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