Era Vulcano, il dio del fuoco. Ma era il Vulcano, il dio del fuoco, delle biciclette. Saldava otto tubi e creava telai, saldava e così li salvava, li salpava, infine li salutava, consegnandoli alla vita.
Cento giorni fa, a 62 anni, moriva Dario Pegoretti. Lo chiamavano guru, artista, creatore, re, aggiungiamoci Vulcano o dio del fuoco, lui non si definiva neppure telaista, ma semplicemente metalmeccanico. In un cassetto ritrovo gli appunti di una chiacchierata del 2017. I cassetti sono un limbo e gli appunti vi ingialliscono come anime in pena.
Pegoretti accennava alle sue corse (“Fra gli juniores, niente di che”), ricordava il suo praticantato (“Quando mi trasferii da Trento a Verona, il direttore sportivo era un telaista, mi disse se volessi passare un po’ di tempo in officina per dare una mano, gli risposi di sì perché pensavo che due lire mi facessero comodo il sabato sera”), raccontava la sua vocazione (“Dopo sei mesi ero dentro, e dentro ci sono da più di 40 anni”), rivelava la sua modestia (“Non avevo passione per la meccanica, portavo solo ruote da centrare”).
Pegoretti spiegava il suo lavoro (“Carpenteria leggera, più semplice di quello che si possa immaginare”), la sua filosofia (“Due passaggi fondamentali: la tecnica, e ci vogliono anni, e lo sviluppo di una idea telaistica, e qui a volte gli anni non bastano”), il suo obiettivo (“Che sia tuo, che sia riconoscibile”), la sua concezione (“Come un grande sarto, che confeziona abiti su misura”), la sua esperienza (“Aver visto tanti corridori, averli potuti comparare, qui servono misure e poi geometrie, interpretando anche a seconda dell’età, dell’uso, dell’anima”), il suo principio (“Non esistono regole scritte”, “Bisogna saper misurare, valutare, interpretare”, “Bisogna anche saper prendere i giusti rischi”).
Pegoretti raccontava dei materiali (“I materiali non sono tutto, anzi, non sono neppure la parte più importante di un progetto”), dell’acciaio (“Lo preferisco perché ci sono nato insieme, lo conosco abbastanza bene, ma non ancora completamente”), dell’anima dell’acciaio (“Il suo odore, che cambia a seconda del tempo, del lavoro, dello stress cui viene sottoposto. La sua mobilità, perché l’acciaio si muove. La sua sincerità, perché non ti tradisce. E la sua storia, perché l’acciaio ha fatto la storia del made in Italy”).
Pegoretti ricordava gli insegnamenti del suocero Gino Milani (“Mi diceva, in dialetto: ‘Su quella cosa ci monta un cristiano’, e si raccomandava, sempre in dialetto: ‘Falla bene, perché ci si può fare male’”), indirettamente anche i suoi insegnamenti (“Rigore, severità, precisione”), le sue convinzioni (“Le mani, non c’è nulla in natura così perfetto come le mani, sono un’estensione della mente”), le sue teorie (“Il problema del peso è un falso problema”), e ribadiva la centralità della bici (“La bici al centro della mobilità urbana sostenibile. Le città devono costruirsi una rete viabile nei percorsi casa-lavoro, casa-caffè, casa-scuola. Più salute e meno spesa”.
Pegoretti confidava anche gli ordini di qualche cliente speciale. Marco Pantani: “Lo incontrai tre volte, ma nel periodo in cui lavoravo da terzista, mi sembrava molto solo anche se circondato da una corte, appariva confuso, poco sicuro, cambiava misure in modo radicale, due centimetri di più o di meno nello spazio di 20 giorni”. Miguel Indurain: “Cambiamenti zero, sapeva esattamente quello che voleva”. Ben Harper: “Io gli regalai un telaio, lui mi regalò una chitarra, l’aveva costruita suo padre, e io non so suonarla”.
Pegoretti confessava l’amore per il ciclismo, quello di ieri (“C’era più romanticismo”) e anche quello di oggi (“Più le classiche, dalla Parigi-Roubaix al Giro di Lombardia, che i grandi giri, certe tappe del Giro d’Italia e del Tour de France”), e confessava anche certe stranezze (“Un nome è nato da un chicco di caffè, un altro da una chemioterapia”) e certe certezze (“Trecento bici l’anno, e a parte qualche vecchio cliente italiano, soltanto all’estero, perché qui da noi ti fanno mille problemi”).
Pegoretti, che non amava esporsi né tantomeno esibirsi, mi lasciò un piccolo dubbio su quanto fosse e quanto – almeno un po’ - ci facesse. Pensai che ci sarebbero state altre occasioni per approfondire. Mi sbagliavo.
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