È come se a un certo punto il medico sbucasse dal suo studio per incontrarci, noi parenti, in corridoio: non va bene, non va per niente bene, non reagisce alle nostre terapie, le stiamo provando tutte, credetemi, ma continua a peggiorare, forza, dovete farvi forza...
Io mi sento proprio come quel parente, leggendo il bollettino finale che consegna il nostro caro congiunto, il ciclismo italiano, al riposo invernale: un solo corridore (Viviani) tra i primi trenta, in base alla classifica World Tour. Di sicuro non avevamo bisogno di questi numeri per capire che aria tira là dentro, nella camera del nostro caro malato. Ma non c’è come sbattere il muso contro le parole ufficiali del medico per realizzare compiutamente la pesantezza del nostro vago sentore. Viviani sesto, poi più nulla. Se non è un’agonia questa, mi chiedo che cosa sia un’agonia.
Chiaramente mi aggrappo anch’io, come tutti i parenti affranti, alle poche speranze rimaste in piedi. So ad esempio che quella classifica penalizza Nibali, vittima di troppi guai, comunque indiscutibilmente ai primissimi posti in qualunque classifica non scritta. So altrettanto bene che neppure Moscon figura tra i primi trenta, anche se nessuno di noi lo scambierebbe con buona parte di quei primi trenta.
Mai farsi prendere dalla disperazione, guai prendere alla lettera certe statistiche, inevitabilmente rigide per via di un criterio comunque oggettivo e insensibile alle sfumature, ai ma, se, però. Per nostra fortuna, oltre al conclamato Viviani, abbiamo ancora Nibali, per gli anni che gli restano (in senso buono) e abbiamo ancora Moscon, per gli anni che l’aspettano. Eppure, saremmo davvero stupidi e ottusi se scartassimo questo verdetto di fine 2018 come un gioco tra i tanti, una delle classifiche strambe e semiserie che da tutte le parti ci arrivano sui più impensabili argomenti. Anche in questa, purtroppo, c’è del vero. Molto vero.
Basta voltarsi indietro, basta rileggere il 2018, e davvero ci accorgiamo che il paziente versa in condizioni critiche. Oltre al solo Viviani nei primi trenta abbiamo un sacco di altri sintomi sinistri. Solo un fulmineo ripasso, per non ammorbarci con le solite cose: unica vittoria nella Sanremo, nessuna squadra veramente italiana, difficoltà mortale a trovare sponsor, corse cancellate, squadrette che muoiono, sempre meno professionisti di casa nostra. Parlo di sintomi, perché sulle cause dovremmo fermarci molto più a lungo. La prima, di cui nessuno stranamente vuole mai parlare, per me resta il caos sempre più arrogante e aggressivo negli impianti naturali dove i bambini dovrebbero avviarsi alla pratica: la strada. È terribilmente pericoloso fare ciclismo in tre quarti della nazione, in tutte le grandi città, ormai anche nelle piccole città. Ci sono aree del Nord dove il ciclismo è ormai disciplina per superuomini, ascendente kamikaze, figuriamoci come possa pensare un genitore di mandare in giro un bambino in bicicletta (per favore, non facciamo i patetici parlando di circuiti chiusi nei parchi: quella è roba per chi toglie le rotelle o per criceti umani, non è scoperta della vera libertà e del vero piacere in bicicletta).
Poi c’è il resto, a cascata. Se cominciare il ciclismo si fa sempre più difficile, si fa sempre più difficile continuarlo. Quindi a organizzarlo, a gestirlo, a promuoverlo, insomma a crescerlo forte e robusto. E ti credo poi che ci ritroviamo tutti in corridoio, con il medico che a mezzavoce non sa come dirci la pura verità, guardate che non risponde alle medicine, continua a deperire, ogni giorno è sempre più debole e più fragile...
D’altra parte, sappiamo come va. Chi teme il peggio è gufo e menagramo. Tra i parenti, comandano sempre gli ottimisti a qualunque costo, finchè c’è vita c’è speranza, su, non facciamola così tragica, magari domani lo ritroviamo in piedi, che salta come un grillo… Purtroppo, tra i parenti del ciclismo prevalgono questi qui, che preferiscono sempre non sapere. Fino all’ultimo.
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