“Non sappiamo nulla. Né della vita né della morte. Né di ieri né di domani. Né dei come né dei perché. Ma una cosa la sappiamo: se Michael, nonostante tutto, continua a lottare, a maggiore ragione dobbiamo continuare a lottare anche noi. E per noi lottare significa credere, sperare, magari anche fingere che tutto questo sia soltanto un incubo, e soprattutto significa correre, e insomma vivere”.
Gabriele Balducci è il direttore sportivo di Michael Antonelli, il ragazzo che dal giorno di Ferragosto sta continuando a lottare in quella terra di nessuno che è il coma. Il “Baldo” ha 42 anni, di cui 12 passati correndo da professionista: dal 2013 è entrato alla Mastromarco Sensi Nibali, e da una settimana entra ed esce dal reparto di rianimazione dell’ospedale Careggi di Firenze.
“Km 87-88 della Firenze-Viareggio. Quel tratto della corsa – da Montecatini al Passo Oppio fino a Popiglio - lo abbiamo segnato con un pallino rosso per la difficoltà: massima attenzione per la strada insidiosa. Lo abbiamo ripetuto anche nella riunione prima della partenza. Poi il via: i ragazzi in bici, il presidente Carlo Franceschi e io in ammiraglia. In gara la radio-baracchino gracchia incidenti e cadute, cognomi e dorsali, squadre e ammiraglie, ma fino a quel momento abbiamo evitato problemi. E’ così: quando la voce dello speaker segnala novità, speri sempre di non sentirti coinvolto. Finché c’è un’altra caduta. Passiamo sul luogo dell’incidente, non vediamo maglie della Mastromarco, la via è libera, andiamo oltre. Tre-quattrocento metri dopo siamo richiamati dalla radio-baracchino: ‘Mastromarco, Mastromarco, torna indietro’. Inchiodo, giro l’ammiraglia, risalgo la corsa in senso inverso, ritrovo il punto della caduta. Tre corridori sono volati in una scarpata: uno sta risalendo con le proprie gambe, altri due giacciono a terra. Mi precipito nel dirupo. Credo di essere il primo. Vedo Michael. E’ inerme, inerte, immobile. Lo chiamo, lo invoco, lo supplico. C’è il medico della corsa. Mi rendo immediatamente conto della gravità della situazione. Michael perde sangue, tanto sangue, da una ferita al labbro superiore, respira forte, in modo anormale, e ha gli occhi rivoltati, all’insù. Incosciente. Sono attimi eterni. Arriva l’automedica, quella del 118, attrezzata: un altro medico e un infermiere tentano di stabilizzare Michael. Poi si fa largo una donna, dice che è una dottoressa, una specialista, si cala nella scarpata senza neppure usare la corda che è stata sistemata per facilitare i soccorsi, indossa i guanti da operatore, trasforma il prato in una sala operatoria a cielo aperto. Sono altri attimi eterni. Arriva l’elicottero, e a me sembra la liberazione, quegli infermieri mi appaiono come angeli dal cielo. Ma l’elicottero, lì, non può atterrare, lo fa nel campo sportivo di San Marcello Pistoiese, a un chilometro e mezzo, forse un chilometro e 800 metri di distanza. Quando portano via Michael, chiedo a un medico di dirmi solo due parole, lui ne usa cinque: ‘Non è grave, è gravissimo’. Ricostruendo quello che è successo, Michael, per evitare alcuni corridori finiti a terra, ha tirato diritto, senza sapere dove sarebbe andato, dove sarebbe finito, ha fatto un volo di cinque o sei metri, noi si è visto di peggio, ma lo fa a 70 chilometri all’ora, e in quel caso ci vuole un miracolo”.
“Michael, lo avevo cercato io, lo avevo voluto io. Lo avevo visto correre in una gara da allievo, a Faenza, vinta. Mi sembrava che avesse qualcosa di speciale, grinta, talento, naturalezza, istinto, non saprei dire con precisione. Continuai a seguirlo. Finché un giorno con Franceschi andai a San Marino, dove Michael abitava. C’era anche suo nonno. Gli parlammo della nostra società, della nostra squadra, delle nostre corse, dei nostri valori, infine anche delle nostre condizioni. Dissi: ‘Pensaci’. Rispose: ‘Ci abbiamo già pensato’. Ripetei: ‘Pensaci, parlane con tutti, poi facci sapere’. Rispose: ‘Tutti siamo mio nonno e io, non ho bisogno di sentire nessun altro’. E venne da noi. Questo è il suo primo anno da under 23. Prima della Firenze-Viareggio gli ho detto che avremmo dovuto parlare del futuro. ‘Ma io non ho dubbi’, disse. E ci siamo dati la mano: da amici, da colleghi, da compagni di squadra e di strada”.
“Tre giorni dopo l’incidente ero in ospedale, nella sua camera, quando Michael ha avuto una crisi. I parametri si sono alzati, il battito cardiaco si è abbassato, è rallentato, suonava solenne e profondo come un tamburo. Sono arrivati gli specialisti e io, per pudore, per impotenza, forse per paura sono uscito in corridoio. Non sono stato mandato via, sono uscito io. Davanti alla morte mi sentivo morire. Poi è arrivato un infermiere, mi ha guardato e ha sospirato: ‘I corridori sono una razza a parte’. Perché?, gli ho domandato, temendo una risposta definitiva. ‘Non ha visto? Il cuore si è ripreso’. Allora sono andato in casetta, quella che noi chiamiamo casetta, dove stanno i nostri corridori che fra una corsa e l’altra vivono lì. Abbiamo fatto una riunione. E ai ragazzi ho detto che se Michael lotta, dobbiamo lottare anche noi, se Michael soffre, dobbiamo soffrire anche noi, se Michael combatte, dobbiamo combattere anche noi, se Michael – a suo modo – corre, dobbiamo correre anche noi. Corriamo, mi hanno detto in coro. Il coraggio di correre e vivere ci viene da lui”.
“Non ho mai sofferto tanto, mai così tanto. Neanche quando morì Alessio Galletti, che pure era il mio amico di tutte le mattine. Neanche – e lo confesso con un certo imbarazzo – quando morì il mio babbo. Stavolta ho pianto, ho urlato, ho implorato, ho supplicato. Stavolta ho pregato. Stavolta ho pensato non di mollare, ma di non essere più capace di fare il direttore sportivo, chiedere ai miei corridori di attaccare, in discesa, costi quel che costi. E mai come stavolta non ho trovato risposto alle mie povere, nude, semplici domande. E’, questo, il momento più duro della mia vita: di corridore, di direttore, di uomo. Però ho trovato, intorno a me, una famiglia: la Mastromarco. Con la sua storia, con i suoi principi, con i suoi valori. E questa storia, con questi principi e con questi valori, ci unisce, ci lega, ci distingue. Franceschi, lo stesso Nibali, Michael, gli altri, anch’io. Insieme. Tutti insieme. Come – appunto - una famiglia”.