I soldi li hanno trovati, adesso bisogna rispettare i tempi. Anzi, possibilmente accorciarli. Soltanto così potremo fare in modo che l’Italia della pista si presenti a Tokyo al meglio: e al meglio vuol dire con l’obiettivo di andare a medaglia con più uomini (e donne) e in diverse specialità. Lo dicono i risultati degli ultimi due anni, quelli dei recenti Europei di Glasgow, quelli dei Mondiali giovanili che si sono appena chiusi ad Aigle - proprio per l’indisponibilità del velodromo di Montichiari - e quelli degli Europei giovanili in corso: la scuola italiana è tornata forte come tradizione vuole.
«Il materiale umano non manca, manca il velodromo», riassume con un sorriso tirato Marco Villa, il ct della pista azzurra. In realtà il Coni metterà 1,8 milioni, la Regione Lombardia 1,5 e il Comune di Montichiari, proprietario del velodromo, sta collaborando con uno stanziamento di 120mila euro. «Un po’ di luce la vediamo, a sentire il presidente Di Rocco si spera di riavere la pista per la fine dell’estate prossima. Certo, vista l’eccezionalità, sarebbe bello che si potesse saltare qualche passaggio, anticipare un po’».
L’eccezionalità è che nel 2020 ci sono i Giochi di Tokyo, e noi abbiamo una gran bella squadra.
«Abbiamo dimostrato di avere due gruppi, maschi e femmine, che possono puntare alle medaglie. Purtroppo il prossimo inverno dovremo arrangiarci, qualcosa dovrò inventarmi».
Si era già inventato l’alternativa: per Glasgow gli azzurri si sono allenati sulla pista del Vigorelli.
«Sì, è andata bene. Le prime due prove di Coppa del Mondo saranno a ottobre, possiamo sfruttare l’attività su strada, e speriamo in un tempo clemente. Per le prove di dicembre pensavo a Formia e all’Etna come alternative su strada, mentre per il lavoro specifico su pista potremmo andare nei velodromi svizzeri. E’ chiaro che costerà di più di quello che avevamo programmato. Ci sono sempre dei conti da fare, e non soltanto con i bilanci».
Cos’altro?
«Anche la disponibilità dei corridori non è scontata. L’inverno è sempre un periodo delicato, le società si aspettano che i ragazzi possano fermarsi, recuperare. Non posso più neanche sperare che piova, come facevo prima. Appena era brutto tempo, i ragazzi mi chiamavano e io aprivo la pista: loro potevano allenarsi per la strada e io li avevo lì, e già che c’erano li allenavo un po’ anche per la pista».
L’oro di Viviani non ha insegnato niente?
«Devo dire la verità: pensavo meglio. Ero convinto che il suo successo di Rio, ma anche gli esempi di Ganna e dello stesso Consonni, sensibilizzassero maggiormente qualche direttore sportivo e anche qualche genitore. Invece trovo le stesse ostilità di prima, gli stessi discorsi. Sento ancora qualcuno che dice che la pista fa male».
Invece fa bene.
«Prima usavo sempre gli esempi stranieri, da Wiggins a Cavendish. Adesso gli esempi li abbiamo in casa. E anche fuori: Thomas e i gemelli Yates vengono dalla pista. Primo: venire in pista ti dà visibilità doppia. E anche a livello atletico aiuta: ti dà il tempo di gamba, ti abitua a fare un certo tipo di fatica».
Il salto di qualità che ha fatto Viviani su strada si deve alla pista?
«Anche alla pista, se Elia è cresciuto così il merito è anche della doppia attività. Alla sua età non avrebbe più questa freschezza muscolare, questa reattività. Poi lui è un caso particolare, è uno che non molla niente. Sono sicuro che è già andato a vedere il calendario del 2020 per segnarsi le date delle gare di Tokyo».
E dietro di lui c’è una squadra forte.
«Scartezzini e Lamon sono gli uomini con cui devo fare tutta la stagione. Bertazzo ha potenzialità enormi ma tante volte non ci crede ancora: vorrei vederlo vincere un Mondiale e un Europeo nella corsa a punti. Sto lavorando per recuperare Coledan, dietro ci sono già ragazzi forti come Moro, Giordani e Plebani, e all’orizzonte i vari Masotto e Konychev».
Non sono gli uomini che ci mancano, nè tantomeno le donne. Ci manca il velodromo.