Gabanein aveva l’onestà di domandarsi, ogni tanto, in salita, perché aveva preferito fare il ciclista professionista invece di stare dietro al banco della macelleria. Gabanein aveva una certezza, cioè che uno come Fausto Coppi, quando decideva che il momento era arrivato, partiva e arrivederci a tutti. Gabanein aveva anche una sensazione, quasi una consapevolezza, quella di sapere di non poter testa a Charly Gaul in montagna, a Gastone Nencini in discesa e a Jacques Anquetil a cronometro, eppure. Gabanein aveva la maglia della Fides a strisce rosse e nere, verticali, come quelle di una squadra di calcio più che di ciclismo. Però Gabanein aveva avuto anche la maglia dell’Italia azzurra. E, soprattutto, Gabanein avrebbe conquistato addirittura la maglia del Giro d’Italia, rosa, come le pagine della “Gazzetta dello Sport”. Era il 1961.
“1961” (Ediciclo, 192 pagine, 14,50 euro) è il libro che Marco Ballestracci dedica ad Arnaldo Pambianco – è lui Gabanein, che in romagnolo indica la giacchetta bianca da garzone di bottega - e alla sua vittoria al Giro d’Italia del centenario dell’Unità d’Italia. Pensieri e ricordi, timori e speranze, pudori e preoccupazioni, pedalate e fatiche, fughe e inseguimenti, minuti e secondi, vigilia e podio, lui che era un campione in prestito (“I campioni sono di un’altra pasta: quando decidono, vanno e ti mostrano il culo, mentre tu sei impiantato e provi a cambiare rapporto, ma che vai su o giù con la catena sempre così rimani: impiantato”) e poi, ancora, dopo, gregario seppure di lusso (“I gregari ti stanno vicino e ti par di essere, come posso dire, al caldo: come se sei riparato, per questo non è bello vedere che un po’ alla volta spariscono per strada”) per Vittorio Adorni e Felice Gimondi.
“1961” è il Gavia (aperto solo un anno prima al ciclismo, e al mondo) su da Ponte di Legno e il Gavia giù verso Bormio, ma prima è il Muraglione e poi è il Lago di Como. E’ gli avversari, da Anquetil a Gaul compresi lo spagnolo Antonio Suarez e il belga Rik Van Looy. E’ i gregari, appunto, loro, da Idrio Bui a Bartòn Assirelli, da Waldemaro Bartolozzi a Augusto Marcaletti, da Pierino Baffi a Oreste Magni. Ed è, su tutti, Coppi, proprio quello che un anno dopo essere andato in fuga dalla Terra, si vede che ci era tornato, parola di Giuseppe Dante detto Bepino, soccorso dal fantasma del Campionissimo sui tornanti del Pordoi e risorto con una borraccia di acqua fresca e benedetta.
Ballestracci (autore, fra l’altro, del sublime “Imerio” e del “Dio del ciclismo”) si trasforma in Pambianco, e Pambianco in Ballestracci: le pedalate diventano parole, i chilometri si traducono in pagine, il vento si materializza in carta, la corsa si fa romanzo. Ma si fa anche diario e cronaca, storia e geografia, confessione e confidenza. Così Pambianco corre a cuore aperto, e così Ballestracci scrive a ruota libera, in un io narrante, che è appunto quello del tandem Ballestracci-Pambianco. “Sotto al palco c’era anche Gaul che adesso era tornato tranquillo e sorrideva nel solito modo: come uno di quei ragazzi che son rimasti bambinetti e guardan cose che vedono solo loro. Era lì che pareva non si rendeva conto di quello che aveva fatto: che c’aveva piantato in asso come dei babbei proprio nel punto dove la salita era così dura che pensavamo di cader giù dalla bicicletta”.
Se la ricostruzione del Giro d’Italia 1961 è precisa, il suo racconto è immaginifico e fantasioso. Ballestracci-Pambianco usa una scrittura-linguaggio fatta di indicativi e di dialetto, musicale e colorita, che a volte ha l’andatura della tappa di trasferimento, ma poi si lancia come in un attacco e si impenna come in un gran premio della montagna, e che ha sempre il vecchio fascino di un film al cinematografo, di un racconto in osteria, di un album di foto in bianco e nero. Ballestracci, e probabilmente anche Pambianco, ama quei racconti da caminetto, quell’atmosfera da tavolata, quel ciclismo da sentimenti, quella semplicità da povertà, e quando può, appena può, ci ritorna, li recupera, li resuscita, scrivendo o recitando, anche suonando, così teatrale.
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