Un cappellino di spugna. Nessuna scritta. Solo due fascette, tricolori. Una, più grande, sopra la visiera. L’altra, più sottile, sulla punta.
Di certo si sa poco. Che il cappellino è del 1949. Che è firmato da Fausto Coppi. E che appartiene alla collezione di Giannetto Cimurri. Solo lui, Mano Santa, il massaggiatore dell’Atala e delle nazionali, strada e pista, Mondiali e Olimpiadi, ne avrebbe potuto raccontare la storia, a cominciare dalla genesi.
Cappellino, berrettino. Nel ciclismo è sempre esistito. Lo indossava Maurice Garin, lo spazzacamino valdostano primo vincitore del Tour de France nel 1903. Proteggeva dalla pioggia, poco, e dal sole, di più. Lo si portava con la visiera davanti, ma anche dietro, per ragioni aerodinamiche, alla belga. Lo si mostrava per esibire lo sponsor. Lo si regalava ai tifosi più appassionati. Tra i pionieri, più che cappellini o berrettini erano copricapi. Dipendevano anche dall’origine dei corridori. Nel 1913 il tunisino Ali Neffati, 18 anni, si procurò una bici, imparò a pedalare, due giorni dopo si iscrisse al Tour de France, correva con il fez, aveva freddo anche in pieno luglio, e più per la temperatura che per la fatica si ritirò. Sostituito dal casco, il cappellino continua a essere portato, sotto, perché il sudore non sgoccioli su occhi e occhiali. E’ una copertina di Linus in testa.
Nella epopea del ciclismo il cappellino è servito anche ad altro. Negli assalti alle fontane. Perfino nelle urgenze intestinali. E in certe questue sentimentali. Si narra che, all’arrivo dei Giri d’Italia del secondo dopoguerra ci fosse spesso qualcuno che rovesciasse un cappello, o un cappellino, per raccogliere donazioni destinate all’ultimo in classifica: Luigi Malabrocca. Chi allungava spiccioli o banconote, chi zollette di zucchero o tavolette di cioccolato, chi frutta o pane, chi addirittura sigarette.
Il primo, forse, a dettare il cambiamento fu Jean Robic. Lo avevano soprannominato Capretta, per il modo in cui pedalava – forte – in salita. Era alto (poco) 1,61, sfoderava un naso grifagno e una voce lamentosa. Si sposò tre giorni prima del Tour de France del 1947: lei, Raymonde, gestiva un baretto a Parigi; lui premise “sono povero” e promise “ma come dote ti porterò il Tour”. Lo conquistò all’ultima tappa, la Caen-Parigi di 257 km, attaccò a Rouen, su una salitella oggi indegna anche di un gran premio della montagna di quarta categoria, e scippò la maglia gialla all’italo-svizzero-francese Pierre Brambilla, precipitato al terzo posto della generale a più di 10 minuti. Robic: gli italiani lo chiamavano “Testa di vetro”, i francesi “Testa di cuoio”, è che aveva subito due fratture alla testa, e siccome gli avevano giurato che una terza poteva essergli fatale, allora lui si fece costruire un casco di cuoio spesso. L’unico del gruppo a indossarlo. E a chi dubitava dell’efficacia del casco, per dimostrare il contrario una volta Robic si fece dare un martello, si assestò un colpo in testa e, mentre scendeva un rivoletto di sangue, imperturbabile dichiarava “visto?, non ho sentito nulla”.
Invece Coppi, chissà, in quelle giornate torride di luglio, in cui il calore rimbalzava sulla strada e scioglieva il catrame, al cotone preferiva la spugna. Forse, quando era impregnata di sudore, la strizzava. Oggi quel cappellino vale oro. Con il dovuto rispetto, una sacra sindone.
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