Alaphilippe ama l'Italia, l'Italia ama Alaphilippe. E allora alziamo i calici perchè questo matrimonio è finalmente celebrato, nel modo più bello e romantico. Una fuga di 120 chilometri, come usava una volta, come per tanti anni non usava più, come i campioni d'oggi usano di nuovo. E per fortuna. I sacerdoti della tattica e del calcolo li chiamano attacchi folli, come in Unione Sovietica (e non solo) chiamavano folli i dissidenti, prima di destinarli alle ghiacciaie dei gulag.
Qui no, qui i folli hanno ripreso a fare un figurone, lasciando la dottrina di regime alla sua decadenza. Alaphilippe non è esattamente dell'ultimissima generazione, anzi ne è già fuori da un po', con i suoi 31 anni, ma nessuno potrebbe mai negare che l'impronta, lo stile, il coraggio, l'intraprendenza (la follia) sono in linea con le nuovissime tendenze dei fenomenali ventenni. Direi di più: come impronta, è profetico. Un pioniere, un caposcuola. Attaccare e puntare il traguardo, senza calcolare rischi e conseguenze. Ci pensano le gambe, ci pensa il talento.
Lo confesso: negli anni scorsi, prima dell'inevitabile e anche parecchio chiacchierata flessione, Alaphilippe è rimasto a lungo in cima alle mie preferenze. Classe pregiata e fantasia di gioco i tratti distintivi. Il titolo di campione non è eccessivo, men che meno sprecato.
A quanto pare, l'indice di gradimento è alto ancora adesso, anzi intatto. Almeno, a giudicare dalla festa di popolo che lo accoglie a Fano e più ancora dalla processione di avversari che dopo il traguardo ci tengono ad abbracciarlo. Belle scene, grandi momenti. E' il ciclismo edificante e artistico che le macchine e le Intelligenze artificiali non riusciranno mai a replicare.
Alaphilippe ama l'Italia e gli italiani. L'ha dimostrato tante volte, lo dimostra venendo sempre volentieri a correre qui. Sottolineo a correre, non a poltrire. Questo Giro povero di grandi talenti dovrebbe dedicargli un bustino in portineria (oltre ai quattro per Pogacar). Averne, di nomi del genere. Di nomi e di modi. Da quando è partito a Torino, Alaphilippe si è messo in gioco, per rispondere a Lefevere certo, ma anche e soprattutto per riscattarsi personalmente. Ha provato a Rapolano Terme, sempre fuga, sempre grande fatica, finendo battuto in volata (e facendo tirare le più malinconiche conclusioni). Ci ha riprovato a Napoli, in questo caso più un blitz finale che un'impresa, tentativo miseramente fallito. Diciamolo: un altro direbbe il mio l'ho fatto, adesso mi metto comodo, e magari mi fermo prima delle montagne. Ma Alaphilippe è di un'altra pasta: arriva la sua tappa perfetta, sui colli marchigiani, avverte il richiamo ancestrale della piccola classica, e via con Maestri – il bravo Maestri – da vero incosciente.
I capolavori li firmano i matti, solitamente. Quelli che la società perbenista definisce matti perchè escono dagli schemi, perchè non sono inquadrati, perchè fanno di testa loro. Così Alaphilippe, che a forza di testate butta giù il muro e alla fine si porta a casa una grande vittoria. E' una vera vittoria italiana, con tanto di commento emotivo e un po' strappalacrime: “Ricorderò per sempre questa vittoria”.
Alaphilippe ama l'Italia e gli italiani, l'Italia e gli italiani amano Alaphilippe. Ce ne vorrebbero parecchi, tutti gli anni, di questi artisti al Giro. Doveva esserci Van Aert, un altro del ramo, sappiamo com'è finito. Ma ce ne vorrebbero, perchè sono le grandi firme a fare le grandi corse. E a fare grandi le corse.
Tutti i giorni c'è un vincitore. Non tutti i giorni c'è un vincitore come Alaphilippe. Non tutti i giorni c'è una maglia rosa come Pogacar. E chi non nota la differenza, nemmeno se la merita.