Mary Cressari, al secolo Maria Margherita Cressari, originaria di Faverzano di Offlaga e residente da tantissimi anni a Castel Mella ha compiuto ieri 80 anni. È stata una pioniera del ciclismo femminile in Italia, in attività dal 1962 al 1979, poi ct della nazionale femminile su pista fino al 1984 quando lasciò ogni incarico.
Da allora il ciclismo femminile è molto cambiato, che effetto le fa vedere oggi le corse delle donne?
«Sembra quasi un altro sport. Quando abbandonai il ciclismo nel 1984 in polemica con la Federazione ne fui talmente nauseata da rifiutare di vedere qualsiasi gara in tv o tantomeno dal vivo finché ho conosciuto nel 2011 Maurizio Ferrari e la moglie che mi hanno riconciliato con il mio sport. La pratica del ciclismo è molto cambiata così come i materiali a disposizione. Ma se devo notare una differenza in negativo la trovo nella passione e organizzazione delle corse. Quando correvo io c’era almeno una gara a settimana, quasi tutte nel Nord e centro Italia e a bordo strada c’era un pubblico incredibile. Venivano organizzati bus di tifosi e c’era tanto pubblico a bordo strada».
Partì tutto dai mondiali di Salò che la videro indossare la prima maglia azzurra?
«Sì, i mondiali femminili su strada si disputavano dal 1958, ma l’Italia non vi aveva mai preso parte, perché non era nemmeno riconosciuto alle donne il diritto di questa pratica agonistica. Con i Mondiali di Salò invece non si voleva fare una brutta figura e venne allestita una formazione sperimentale della quale entrai a far parte. Ma mi guadagnai la maglia perché vinsi la premondiale a Brescia, con traguardo alle Fornaci. Era la prima gara femminile riconosciuta ufficialmente dalla Federazione sul suolo italiano».
Combinazione nel 2024 il primo Giro d’Italia femminile organizzato da Rcs partirà da Brescia con una cronometro.
«Sono molto felice che Brescia abbia questo onore, io del resto ho il rammarico di non aver mai potuto correre un Giro d’Italia o un Tour de France per le donne perché non esistevano. Andavo forte a cronometro e bene in salita, mentre le corse disputate in Italia erano spesso circuiti non impegnativi con conclusioni allo sprint, specialità che non mi vedeva mai molto favorita. Nelle poche corse a tappe disputate all’estero ho dimostrato di essere molto competitiva».
Però è passata alla storia per il record dell’ora in Messico? Come nacque l’impresa?
«Mi stavo allenando in pista per stabilire il record dei 5 e 10 chilometri, all’ora non ci pensavo, ma Merckx stabilì nell’ottobre ’72 il record a Città del Messico e il mio patron, Terraneo, mi provocò: saresti in grado di battere il record femminile? Certo, risposi, se qualcuno mi paga la trasferta a Città del Messico io ci provo. Nacque così quell’improvvisata trasferta. Riuscì subito a battere il record dei 5, 10 e 20 km e d’accordo con il mio allenatore continuai per l’ora. Ma il primo tentativo fallì per soli 70 metri. Fu allora che il console italiano in Messico (mi piacerebbe conoscerne il nome per poterlo ringraziare anche se dubito sia ancora vivente) disse che dovevo restare, a sue spese, ancora qualche giorno per ritentare. Così feci e fu un trionfo».
Il record le diede notorietà e una bella spinta per il prosieguo della carriera?
«Mi permise soprattutto di far innalzare il limite agonistico dei trent’anni imposto alle donne, poi mi regalò una maggiore consapevolezza nei miei mezzi».
Poi ci fu il record dei 100 km nel ’74.
«Quello nacque come risposta alla Federazione che rifiutò di inviare una nazionale ai Mondiali in Sud America con la risibile motivazione che non eravamo all’altezza. Così dimostrai a tutti che le donne valide da convocare c’erano, eccome. Ma fu un record massacrante, feci quasi 300 giri del Vigorelli in meno di tre ore».
Ripensando alla sua carriera deve ringraziare qualcuno?
«Soprattutto il mio compianto marito Angelo Savoldi. Non si oppose mai alla mia carriera nonostante avesse altri interessi e nei momenti difficili sapeva come spronarmi alla sua maniera; il mio ds storico Bonariva che mi seguì per tanti anni, dalla Baby Terraneo alla Colnago, e poi mio figlio Ernesto col quale c’è sempre stato un rapporto fantastico. Non ha seguito purtroppo le orme della madre diventando comunque uno sportivo di valore (nella pallamano ndr). Ho avuto tante soddisfazioni in carriera, dai titoli italiani su strada a quelli ancor più graditi su pista, ma in fondo è proprio mio figlio la vittoria più bella e preziosa».
da Il Giornale di Brescia
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