Conosceva l’arte della volata. E conosceva soprattutto quella del sorriso. Stanotte è morto Aldo Pifferi, aveva 85 anni e infinite storie da raccontare.
Le storie di quando era piccolo: “Nato a Orsenigo, a 10 chilometri da Como, lavoravo in un’azienda di tessitura, addetto a certi macchinari per fare le cravatte”. Di quando cominciò a correre: “Prima corsa, prima vittoria, in volata. Ma ero un velocista da gruppetto, da gruppettino, meno si era e meglio era”. Di quando era dilettante e fu convocato in Nazionale e indossò la maglia azzurra: “Anche ai Mondiali del 1959 e del 1961”. Di quando passò, da gregario, fra i professionisti: “Quando proprio dovevo fermarmi nei bar, mi mettevo d’accordo con altri tre o quattro corridori per aiutarci a rientrare”. Di quando perdeva le buone occasioni: “Quella volta che alla quinta tappa del Giro di Sardegna del 1967 Anquetil mi spinse perché secondo lui meritavo di vincere la tappa. Quella volta che alla settima tappa del Giro di Sardegna del 1967 arrivai secondo dietro a Eddy Merckx...”. Di quando riusciva a strappare le vittorie: “Quella volta che alla prima tappa della Tirreno-Adriatico del 1967 nel finale, a uno spartitraffico, ci fu un momento di confusione, io intuii la strada giusta, presi quei 20-30 metri e vinsi davanti a Dancelli, che era il mio capitano. Quella volta che al Giro delle Tre Province a Camucia nel 1967 nel finale ci fu una caduta, io ero in testa e partii a tutta, presi quei 20-30 metri e meno male che stavolta, fra me e il mio capitano Dancelli, c’era un altro corridore. Ma adesso con Dancelli è tutto ok”.
Pifferi vinse una tappa del Giro d’Italia nel 1965: “Era la Diano Marina-Torino, 200 e passa chilometri, dal mare scalando prima il San Bartolomeo, poi il Col di Nava, infine sgommando in pianura. Pronti-via, un nostro compagno di squadra, Renzo Baldan, non stava bene, io mi misi al suo fianco e lo spinsi, arrivò la moto della giuria, il commissario mi avvertì, mi minacciò, mi multò, ma ormai il peggio era passato. Poi fughe e controfughe, finché poco prima di Mondovì nacque quella buona. Capii che sarebbe stata l’occasione giusta, e me lo dissi, anche. Mi inserii nel gruppetto. Dentro c’erano tanti amici, amici giù dalla bici, ma nemici sulla bici, da Vigna a Bailetti, da Fornoni detto ‘il Maestro’ a Baffi. L’unico amico che mi può aiutare – cercavo di ragionare fra me e me – è Bailetti, ma a sua insaputa. Perché lui era uno che aveva bisogno di spazio e che sarebbe partito lungo. E fu così. A un certo punto presi la sua ruota e per paura di perderla smisi anche di tirare. Si arrivava su un rettilineo, lo stesso del Giro d’Italia ’61. Bailetti partì lungo, e siccome io ero ancora attaccato alla sua ruota, lui senza volerlo mi portò al traguardo. Quando poi – come avevo previsto, e molto sperato – Bailetti calò, io lo saltai. E gli altri finirono dietro di me. Insomma: vinsi. Il palco, i fiori, De Zan. Ma il ‘Processo alla tappa’ no, là andavano solo i capitani”.
Lo s’incontrava, Pifferi, ai raduni dei vecchi corridori. A mangiare e bere, a ricordare e raccontare, a scherzare e cantare. Lui, come un pifferaio magico, sapeva incantare tutti con l’arte del sorriso.
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