E’ morto Sergio Staino. E’ morto l’altro ieri. E’ morto a 83 anni. Staino era il papà di Bobo, vecchio spelacchiato militante del Pci, tormentato e idealista, bistrattato e spaesato. Staino era vignettista e fumettista, giornalista e direttore, sceneggiatore e regista, in una sola parola, a suo modo, artista. Staino ha collaborato con periodici (da “Linus” a “Cuore”) e quotidiani (dal “Messaggero” alla “Stampa” e all’”Avvenire”), li ha diretti (da “Tango” a “l’Unità”), ha lavorato per la tv (“Cielito lindo” con Claudio Bisio) e per il cinema (“Cavalli si nasce” e “Non chiamarmi Omar”).
Staino aveva anche una gran passione per il ciclismo. Un giorno me la raccontò per la rivista BC cominciando da qui: “Domenica 18 aprile 1948. La data è certa: quel giorno si tenevano le elezioni politiche per rinnovare Camera e Senato. Da una parte la Democrazia Cristiana, presieduta da Alcide De Gasperi, dall’altra il Fronte democratico popolare, che univa Partito comunista e Partito socialista, e il cui leader era Palmiro Togliatti. Noi si andava tutti – il nonno, il papà, la mamma, anch’io, che di anni non ne avevo ancora compiuti otto – vicino a Firenze, a votare, in bicicletta, in fila indiana. Strada facendo, ci superò un camion, carico di uomini e donne, lavoratori, che cantavano ‘Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa’. Uno di questi uomini ci apostrofò: ‘Signoroni!’ E aggiunse: ‘Da domani si cambia, la bicicletta la si prende noi’. Perché a quel tempo si era così poveri che la bicicletta era un lusso. Il nonno rimase zitto, forse sorpreso, forse imbarazzato, forse impossibilitato, in quel momento, a spiegare. Perché anche la mia famiglia andava a votare, compatta, per il Partito comunista. Il giorno dopo, quando annunciarono la vittoria della Democrazia Cristiana, in casa nostra tutti piangevano, tranne me. Avevo salvato la mia bicicletta. Mi era stata regalata dal nonno ed era stata ridipinta, ovviamente, di rosso”.
Il 1948 era anche l’anno in cui Gino Bartali rivinse il Tour de France a 10 anni dalla prima vittoria. Ancora Staino: “Mi vantavo di avere i polpacci alti come quelli di Bartali. Mi ero innamorato di una bionda, ai giardinetti vicino a Fiesole, e in bici andavo avanti e indietro, fra evoluzioni e acrobazie, quando rovinai tutto, anche me, in un ruzzolone. Mi sbucciai, mi ferii, e lei scoppiò a ridere. Fine del corteggiamento”. Ma non fine della bici. “La usavo per andare al lavoro o in gita, la mattina presto, con la cesta di metallo e la merenda”.
Dopo Bartali, Staino visse la stagione, più breve, di Gastone Nencini: “Era ‘il Leone del Mugello’, di Barberino del Mugello, anzi, di Bilancino di Barberino del Mugello. Nel 1957 vinse il Giro d’Italia e due tappe del Tour de France, nel 1958 due tappe al Giro e una al Tour. Così, quando proprio in quegli anni cominciai a girare l’Europa in autostop, Nencini era il mio lasciapassare, il mio passaporto. E nel 1960 mi trovavo ad Aquisgrana, in Germania al confine con la Francia, alle prese con i doganieri, quando Nencini trionfò al Tour de France”.
Al Giro e al Tour Staino sarebbe tornato con Andrea Satta, a vedere, anche se la vista lo stava abbandonando, e a disegnare, dunque a raccontare la corsa. “Vignetta. Bobo domanda quanto incida la chimica nel Tour. Gli risponde un corridore, borraccia in mano e cappellino alla belga con la visiera sulla nuca: ‘Poco, al massimo quanto la tv nella politica italiana’”. E alla bicicletta Staino sarebbe tornato con il libro ‘I Riciclisti’, scritto da Satta per Ediciclo: “La bicicletta è di sinistra: uno strumento politico, capace di opporsi alle grandi compagnie petrolifere e alle multinazionali, un modo per ridurre l’impatto ambientale e vedere il mondo con uno sguardo diverso”. Come il suo.
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