Camillo Olivetti s’innamorò di un biciclo, acquistò una “splendida macchina da corsa di seconda mano, pagandola 80 dollari”, buono il prezzo ma non i freni, tant’è che alla prima uscita, in discesa, cadde, lui se la cavò, invece il “bucefalo” richiese la cura di un meccanico, altri cinque dollari.
Era il 1893. Cominciò allora la storia su due ruote degli Olivetti e della Olivetti. Perché Camillo, in bicicletta, esplorò il parco Yosemite, si arrampicò su passi di oltre duemila metri, non si fermò neppure davanti a mulattiere con la neve alta dieci centimetri. Perché Camillo acquistò un’altra bicicletta, stavolta nuova, una Victor, per 35 dollari. Perché Camillo, tornato in Italia, decise di importare quel marchio e commercializzarlo. Perché Camillo continuava a pedalare, i più anziani ricordavano “la sua manovra atletica per salire in bicicletta, sfruttando con un piede la sporgenza del mozzo posteriore”. Perché Camillo, in bicicletta, ogni giorno andava “dal Convento sulle pendici del Monte Navale, dove abitava con la famiglia, all’azienda in via Castellamonte”. Perché Camillo preferiva la bicicletta anche quando “a cavallo fra le due guerre, ad accogliere un gerarca fascista alla stazione di Ivrea”, “inviò un’elegante auto nera, che lui seguì in bicicletta”, “anche per evitare di sedersi accanto al politico, di cui certamente non condivideva le idee”.
Paolo Ghiggio ha scritto “Olivetti, una storia su due ruote” (Hever, 216 pagine, 20 euro), una lunga storia documentata e affettuosa, a parole e immagini, a memorie e testimonianze, piena di gratitudine e ricca di curiosità. Da Camillo, l’ingegnere, il fondatore, ad Adriano, l’ingegnere, l’imprenditore, dai parcheggi per le biciclette degli operai alle biciclette – Frejus – per uso interno (con telaio ridotto e ruote 24 studiate per muoversi nelle corsie delle linee di produzione e nei reparti) e alle biciclette per il reparto interno dei Vigili del fuoco (agili, maneggevoli, con un campanello rinforzato), dal Giro d’Italia (la fornitura di macchine per scrivere) al Tour de France (Ivrea sede di partenza di una tappa nel 1966), dalla sezione ciclismo del Gruppo sportivo ricreativo Olivetti al Gran premio Olivetti, da Gino Bartali e Fausto Coppi ospiti a Jacques Anquetil e Rik Van Steenbergen premiati, e Franco Balmamion amato, gloria (non solo) locale.
Olivetti significava avanguardia e illuminismo, orgoglio e coraggio, industria e cultura. La bicicletta ne era la sintesi. Quando Camillo Olivetti, con i soci Dino Gatta e Michele Ferrero, lanciò le Victor, per la pubblicità scelse manifesti in stile Liberty, per la filosofia descrisse “macchine solide e serie, le quali per la loro robustezza eliminino ogni pericolo pel ciclista, per la loro leggerezza, scorrevolezza ed eleganza”, per il pubblico puntò su cinque taglie per il modello da uomo e due per quello da donna, telai in acciaio, maniglie in sughero, con campanellino, tendiraggi e portabagagli di serie. E quando i prezzi troppo alti costrinsero Olivetti e soci ad abbandonare la commercializzazione delle bici, “non fu un fallimento, ma servì da scuola, per l’esperienza professionale e imprenditoriale, quando Olivetti si dedicò alla costruzione di strumenti di misura elettrica”. Insomma, ne aveva già fatta di strada. Tanto che “il verbo ‘pedalare’ divenne sinonimo di fatica e di sudore”, “il suo uso traslato negli ambienti di lavoro e in quello sportivo prese il significato di impegno senza risparmio”, “gli operai Olivetti, fedeli alla filosofia di Camillo prima, e di Adriano poi, sposarono questo sistema di vita”.
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