Dino Zandegù – otto Giri d’Italia, sei tappe e una classifica a punti da corridore, poi direttore sportivo, infine a lungo capo della carovana pubblicitaria – detiene un singolare primato: è l’unico corridore che sia mai entrato in un negozio per cercare una maglia e che ne sia uscito con una moglie.
Era un ragazzo di campagna: “Ventitrè anni, campione del mondo a cronosquadre dilettanti, neoprofessionista nell’Ignis, ottobre 1963, poi nella Cynar, stagione 1964. Abitavo ancora a casa, a Rubano, con le mie sette sorelle, l’appartamento sopra al panificio di mio padre. Grazie ai buoni rapporti con la Padovani, nel 1965 passai alla Bianchi. Un buon contratto, forse meglio di quello che meritassi. Perché, fino a quel punto, anni venticinque, vittorie zero, speranze mille”.
Era una giornata di fine gennaio: “Giunse una chiamata al telefono pubblico di Rubano. Giunse da Milano. E giunse un invito: tre giorni dopo, al Palazzo della Fiera, in piazza VI Febbraio. E già tutto il paese sembrava saperlo prima di me: la Sei Giorni di Milano. L’appuntamento era con Nino Recalcati e Vittorio Strumolo, gli organizzatori. Mi offrirono un ingaggio misero, ma l’occasione era ghiotta, e accettai al volo. La verità è che pur di partecipare avrei pagato di tasca mia”.
Era l’inizio di un’avventura: “Fui abbinato a Toni Bailetti, mio compagno di squadra nella Bianchi. Ed eravamo già ultimi prima ancora di cominciare: la coppia numero 14 delle 14 coppie, io con il dorsale rosso, lui con quello nero. Le altre tredici coppie erano collaudate e rodate, chi alla quinta, chi alla settima, chi alla decima Sei Giorni dell’inverno, invece per noi era la prima. Ci alleneremo anche in albergo, la buttai lì. Ah sì, buona idea, ci dissero, è un po’ in periferia ma c’è l’aria buona. Non proprio. L’albergo era a Rho, regno delle raffinerie petrolifere, primatista italiano d’inquinamento atmosferico”.
Era qui il bello: “La vigilia della Sei Giorni ci ordinarono di andare a ritirare il corredo, tre maglie da gara e tre maglioni da zeriba. La zeriba è quello spazio dove i corridori che non corrono si riposano mangiando e bevendo, chiacchierando o guardando, fra lettini e massaggi. Destinazione: Vittore Gianni. Indirizzo: via Ponte Vetero. Zona: Brera. Un ufficio-negozio-laboratorio, una parte sopra e una parte sotto, e il magazzino sottosopra. Entrai, salutai la segretaria, vidi una ragazza bionda, videro che la vidi e si affrettarono a spiegarmi che si trattava della figlia di Armando Castelli e che si trovava lì per caso. Ma il caso, si dà proprio il caso, in amore non esiste”.
Era la Sei Giorni, tra sport e spettacolo, circo e cabaret: “Mi impegnai, cercai di fare bella figura, ci riuscii più da giullare che da corridore. Ascoltavo i consigli, obbedivo agli ordini, stavo ai patti, e arrivavo ultimo. Ogni tanto, molto ogni tanto, mi davano via libera e io ne approfittavo per vincere una volata o un traguardo. Il martedì e il venerdì sera arrivavano i pullman dal Bergamasco e dal Bresciano e il Palazzo si esauriva. Ed esaurito era anche l’interno della pista, allestito di tavoli e palcoscenico, gente che mangiava e beveva, rideva e fumava, e girava la testa come trottole per seguire i corridori. A un tavolo riconobbi Armando Castelli e la sua bellissima figlia bionda. Prima dell’eliminazione, che precedeva l’ultima americana, Recalcati mi prese da parte: devi vincere tu! Sì, me lo ricordo, c’era anche il punto esclamativo. O forse addirittura due”.
Era l’occasione della vita: “Fui quasi di parola. Vinsi. E alla grande. Ogni giro indicavo il corridore che sarebbe stato eliminato, anzi, quello che avrei eliminato io costringendolo a rallentare e poi superandolo nello sprint. Finché rimanemmo in due, e a quel punto fu il pubblico a spingermi alla vittoria. Poi, sapendo che forse non mi sarebbe più successo, mi concessi quattro giri d’onore. Alla fine del primo giro catturai al volo un mazzo di fiori, alla fine del secondo individuai il tavolo della famiglia Castelli e alla fine del terzo lanciai il mazzo a quella bellissima ragazza bionda. Ma il lancio fu più lungo del previsto e il mazzo concluse il volo fra le mani di una sua amica, meno bellissima e meno bionda, e tutte e due ridevano come matte”.
Era stato un equivoco: “Ma riuscii a risolverlo. Dopo la Sei Giorni di Milano fummo convocati per un collegiale a Loano. E alla nostra squadra si unì Maurizio Castelli, figlio di Armando e fratello di Lalla. Così si chiamava quella bellissima ragazza bionda. E la domenica la famiglia Castelli venne a Loano in gita. Stavolta mi organizzai per evitare altri equivoci. E poi da un grossista di fiori di Rubano ordinai un mazzo di rose inglesi e le feci recapitare, con tanto di bigliettino, a nome Lalla, a Milano, a casa Castelli”.
E da quel giorno Lalla e Dino vissero felici e contenti. Mai, neanche lui, Dino, avrebbe detto che quel giorno, a Milano, via Ponte Vetero, zona Brera, entrato per una maglia, ne sarebbe uscito con una moglie.
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