Sono passati qualche giorno e fors'anche qualche settimana dal “cadeau” di Wout Van Aert in piena “Settimana Santa” a Christophe Laporte. Un regalo per il fido amico-gregario, ricordate? La storia del ciclismo è piena zeppa di questi episodi, di questi slanci di generosità o di arrivi decisi in ammiraglia o in sella ad una bicicletta. Il gesto come era prevedibile non è passato inosservato e ha generato come sempre punti di vista e opinioni di ogni genere e tipo: chi a favore del belga che ha donato la Gand-Wevelgem al fido gregario transalpino e chi invece, come il sottoscritto, non ha apprezzato il gesto.
Ho sempre pensato che le corse vadano onorate fin sulla riga di arrivo, questo non lo dico solo io, ma lo direbbe anche il regolamento. Non mi piace assolutamente quando un campione regala gare di peso, e la Gand lo è. Questa uscita non mi ha chiaramente incatenato il cuore, anzi, da grandissimo estimatore del campione belga il suo gesto mi ha indispettito non poco: neanche fosse un pluridecorato, un cacciatore di classiche insaziabile, uno che di Gand ne aveva in carniere già una collezione: no, niente di tutto questo, Van Aert è piuttosto conosciuto per i suoi continui secondi posti e, per sua scelta, ha voluto registrarne un altro.
È chiaro che in materia è giusto che ognuno abbia la propria opinione: è solo una questione di punti di vista. C’è chi ci rimane male, chi indifferente e chi invece si esalta per il nobile gesto, perché «di grande eleganza e di particolare sensibilità. La parrocchia dei puristi storce il naso perché una regola non scritta del ciclismo dice che il più forte deve vincere. Punto», ha scritto l’amico nonché vicedirettore della Gazzetta Pier Bergonzi.
La discussione è aperta, come è giusto che sia, sono cose che fanno bene al ciclismo. Sono discussioni buone e lievi, di quelle che animano i bar sport senza intossicarli, ma trovo che in un periodo storico come questo, ricco di talenti e animato da una generazione di fenomeni pazzesca, che va dal già citatissimo Van Aert, per passare a Pogacar ed Evenepoel e arrivare a Van der Poel senza dimenticare Roglic e Vingegaard, queste soluzioni da libro cuore fanno parte di un ciclismo che pensavo appartenesse ormai solo al passato. Di Pogacar, Evenepoel e Roglic apprezziamo soprattutto la loro voglia di vincere, sempre e comunque, qualunque corsa si corra. Non si fanno sconti e gli sportivi, noi tutti, questa cosa dimostriamo di apprezzarla enormemente.
Per questi fenomenali corridori ogni occasione è giusta per dare spettacolo e battersi come leoni, per poi riconoscere con assoluta sportività (questi sì che sono gesti nobili, da applausi a scena aperta) la superiorità dell’avversario, con qualche pacca sulla spalla e sinceri abbracci. Pogacar di regali non ne fa, e quelli che fino ad oggi sono riusciti a lasciarselo alle spalle possono andare orgogliosi e fieri di non aver certo ricevuto favori dal terribile bimbo sloveno.
Nessun regalo: molta gloria. Van Aert ha scelto invece un gesto “nobile” che ai nostri occhi di nobile non ha proprio nulla, soprattutto in questo esaltante momento storico, animato da campioni dalla sfacciata lealtà. Un gesto antico che sa poco di incenso e molto di muffa. Van Aert inconsapevolmente con la sua mancata volata ci ha ricondotto ad un ciclismo antico che “noi puristi” avremmo preferito lasciare volentieri in soffitta.
LA SCOPERTA DELL’ACQUA. Ha sempre avuto una visione, scrutando orizzonti lontani. Maurizio Fabretto è ripartito in grande stile con la sua Acca Due O Manhattan e un gruppo di amici sponsor che lo seguono fedeli da anni. Una squadra al momento piccina, di sole 12 ragazze, tutte molto giovani, tutte molto ambiziose, tutte desiderose di scoprire i propri limiti. Lui, Maurizio, di limiti non se ne pone: è questo il suo unico vero limite.
RINASCIMENTO CICLISTICO. In questo ultimo mese mi sono trovato spesso a parlare del ciclismo attuale con tanti appassionati del nostro sport, e tutti hanno manifestato l’ammirazione per questi ragazzi che danno l’impressione di divertirsi a correre in bicicletta senza il timore di sbagliare o perdere, alla faccia delle tattiche e delle strategie di squadra. Osano, consapevoli di osare, di andare anche oltre ai propri limiti che sono però illimitati e lo fanno per rendere il nostro sport più fruibile e per un piacere che sembra appartenere al DNA di questa nuova generazione di corridori.
Prendono e vanno, quando meno te lo aspetti, incuranti di come andrà a finire, con il piacere - sempre - di arrivare là davanti. È un pensiero che accomuna Evenepoel a Pogacar, Van der Poel a Van Aert, Vingegaard a Roglic. Sono loro “i magnifici sei”, gli assi pigliatutto. Sono loro che stanno contaminando l’intero gruppo. Grazie a questi ragazzi possiamo parlare di Rinascimento ciclistico, speriamo solo che con Ganna e Ciccone ben presto possa rinascere anche il nostro, di ciclismo.
L’UOMO E UN FONDO. Abbiamo salutato un altro pezzo di storia del ciclismo italiano. Un nome e un cognome riconosciuti nel mondo dell’industria italiana, del vero made in Italy, che in punta di piedi ha abbandonato la scena. Ugo De Rosa è un nome e un cognome, prima di un marchio. Un uomo che ha fatto della sua passione la sua professione, dispensando in settant’anni di storia passione ed emozione con i suoi telai.
Salutandolo il 28 marzo scorso, nella sua Cusano Milanino, tra centinaia di persone che gli hanno voluto bene, molti dei quali hanno scelto nella loro vita di pedalare in sella ad una bicicletta con il cuore, ho respirato qualcosa di dolcissimo e fraterno, ma in me albergava anche un sentimento dal sapore acre. La dolcezza di un mondo che sta finendo e l’amaro di un futuro che a un nome e un cognome ha preferito solo un nome, non ben identificato: quello dei fondi. Una sigla. Una cifra. Sarà dura un giorno far loro un funerale; sarà dura anche solo tenerli a battesimo.
Editoriale da tuttoBICI di Aprile