La mia Africa è il Ruanda, anzi, il Tour of Rwanda. La prima volta, nel 2020, con l’Androni, fu avventurosa. Arrivammo un paio di giorni prima della partenza, soffrimmo l’altitudine, perché si corre sempre sopra i duemila metri, ogni giorno che passava mi sentivo meglio, non mi sembra però di aver fatto piazzamenti fra i primi dieci altrimenti me li ricorderei, al momento del rientro in Italia cominciava a dilagare il Covid, il primo aereo fu cancellato, il secondo decollò due giorni dopo. Arrivati a casa, la vita si fermò. La quarantena. A pensarci adesso, sembra passato un secolo.
All’inizio di questa stagione, quando si sono fatti i programmi secondo gli inviti alle corse, ho chiesto di tornare qui. Ma stavolta, con la Green Project Bardiani-CSF-Faizanè, siamo arrivati cinque giorni prima della partenza per acclimatarci all’altitudine, alla temperatura, ai luoghi. Lunedì scorso abbiamo volato da Venezia a Istanbul, scalo, poi da Istanbul a Kigali, siamo arrivati di notte, martedì un’uscita di un paio di ore, mercoledì un allenamento di quattro ore e mezzo, giovedì scarico, venerdì tre ore e mezzo, oggi – sabato, vigilia della corsa – scarico la mattina e massaggi il pomeriggio.
Ci troviamo nel Kim Hotel di Kigali, la capitale del Ruanda. E’ un bell’albergo, all’europea anche se sempre africano, con tanto di piscina, camere doppie – io sto con Filippo Fiorelli -, a poche centinaia di metri dallo stadio di calcio e dell’atletica. Colazione all’italiana, cena a base di riso in bianco, pollo, verdure rigorosamente cotte, acqua soltanto in bottiglia, e acqua dalla bottiglia anche per pulirsi i denti. Il rischio della dissenteria, per noi europei, è forte.
Kigali mi è sembrata, così, a occhio, la stessa di tre anni fa: una metropoli, con un traffico pazzesco tra pullman, camion, auto e una quantità impensabile di scooter, con una nuvola di smog che ristagna su case, casette, casermoni e grattacieli. Ma appena si esce da
Kigali, è tutt’un altro mondo. Perché in campagna le strade si restringono, le case sono fatte di mattoni ma anche di argilla, i negozi sono botteghe, le botteghe sono bancarelle, le bancarelle sono ceste e sacchi, e i bambini spuntano dovunque. Ho visto una donna che, con un bambino legato e fasciato alla schiena, lavorava – piegata in due - nei campi. Ho visto un bambino su una bicicletta più grande di lui, con i freni a bacchetta, spingere a piedi scalzi sui pedali e non mollare la nostra ruota a trentacinque all’ora. Ho visto una bici-taxi con quattro o cinque galline legate sul portapacchi. Ho visto una bici con un contadino e due capre sopra. Ho visto un bambino uscito da scuola correrci di fianco per duecento metri sul marciapiede finché io ho regalato a lui una borraccia e lui ha regalato a me un sorriso commovente. Ho visto tanti di quei bambini che ci vedevano in lontananza, correre già da una collina e osservarci come se fossimo dei marziani. Ho visto bambini giocare con bottiglie di plastica vuote come se fossero palloni da calcio gonfi, bambini giocare con cerchi e bastoni come si faceva in Italia nell’Ottocento, bambini spingere copertoni di camion come se fossero bottini di guerra. Ho visto una povertà, una miseria, una mancanza di tutto da ridimensionare qualsiasi pretesa.
(fine della prima puntata – continua)
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