A TU PER TU CON FAUSTO MASNADA, TRA GIRO, REMCO, RILANCIO, PRESSIONI E UN CICLISMO CHE CAMBIA

INTERVISTA | 11/02/2023 | 08:51
di Carlo Malvestio

Ormai è più di tre anni che Fausto Masnada fa parte del Wolfpack. Della Soudal-QuickStep conosce metodi di lavoro, ambizioni e voglia di vincere, che l’hanno resa nelle ultime stagioni una macchina da vittorie. Rimanere al passo non è certo facile, a maggior ragione quando la dea bendata decide di metterti il bastone tra le ruote come è successo al bergamasco nel 2022, con continue magagne fisiche che ti costringono a restare ai box per settimane e mesi. Il 2023, però, è cominciato sotto una nuova luce per Fausto, che ha già esordito al Challenge Mallorca e ora si appresta ad iniziare il Tour of Oman, che l’anno scorso lo ha visto vincere una tappa e chiudere secondo in classifica generale. Remco Evenepoel lo ha già scelto come uno dei suoi fidati scudieri in salita: insieme hanno conquistato la Maglia Rossa alla Vuelta a España, ora tocca alla Maglia Rosa del Giro d’Italia.


Lo abbiamo incontrato al porto di Mascate, Al Mouj, alla vigilia del Tour of Oman, all’interno di una bella barca in legno in cui i top riders si sono concessi ai media.


Fausto, hai già esordito a Maiorca. Come gira la gamba?

«Mi sento abbastanza bene, a Maiorca sono stati tre giorni di gara duri con condizioni piuttosto estreme. Non correvo dalla Vuelta, quindi un po' di mesi, ma il feeling mi è parso subito buono, in salita ho tenuto bene, abbiamo lavorato per Alaphilippe, sono contento dei segnali avuti. Abbiamo cambiato un po' la preparazione rispetto all'anno scorso, quest'anno il grosso del lavoro verrà fatto in vista del Giro, quindi ancora non ho fatto ritiri in altura. Li farò più avanti, con 18 giorni al Teide prima del Giro di Catalogna e poi dopo il Giro dei Paesi Baschi un altro periodo di ritiro per qualche settimana».

Da dove nasce l’esigenza di cambiare avvicinamento alla stagione?

«Abbiamo notato che dopo i periodi in altura riesco a dare sempre qualcosa di più, e quest’anno dovrà essere al Giro. L’inverno scorso avevo fatto un ritiro in Colombia di qualche giorno, quindi sono arrivato in Oman già abituato al caldo e con un carico di lavoro in altura importante. Probabilmente quest'anno sono leggermente più indietro rispetto al 2022, ho forzato un po' meno, ma ciò non vuol dire che possa fare bene. Qui tranne la prima tappa sono tutte giornate piuttosto esigenti, siamo io, Jan Hirt e Mauri Vansevenant per le tappe più dure, Tim Merlier per la volata. Non c’è nessun capitano designato e penso sia giusto così, perché in queste corse è bello che ognuno abbia l'opportunità di fare qualcosa di buono».

Cosa ti ha lasciato il travagliato 2022?

«È stato un anno complicato, c'è sempre stato qualcosa che mi ha impedito di raggiungere la forma migliore. Prima il covid in inverno, poi la mononucleosi dopo l'Oman che mi ha tenuto fuori  tre mesi, sono tornato al Giro di Svizzera ma poi mi si è infiammato il sottosella ed è iniziato un nuovo incubo, che mi ha reso difficile pedalare e stare in sella. Se ci ripenso ora mi chiedo come abbia fatto a correre la Vuelta, sapendo quello a cui sono andato incontro mi ritirerei dopo la prima tappa. I dottori, infatti, mi hanno fermato subito dopo la passerella di Madrid. Ho voluto stare al fianco di Remco per il grande obiettivo che avevamo fino alla fine, ma ero ben lontano dall'essere performante».

A proposito, l’infiammazione te la sei lasciata alle spalle?

«Questo inverno sono dovuto stare fermo due mesi affinché l'infiammazione rientrasse, dopo la Vuelta la pelle si era erosa tantissimo e tutt'ora devo curarla per bene prima e dopo la pedalata. Pian piano, però, si sta rimarginando».

Dal punto di vista mentale come si affrontano quelle stagioni in cui tutto sembra girare nel verso sbagliato?

«Ho sempre cercato il lato positivo della questione, consapevole che non c'era molto che potessi fare in quel momento. Gli stessi dottori mi hanno detto di restare tranquillo e pensare solo a recuperare, senza stare lì a pensare alla Liegi o al Giro che non potevo correre. La mononucleosi mi aveva veramente debilitato, facevo fatica anche a fare una passeggiata, ma il problema al sottosella è stato ben peggio, una sofferenza unica».

Ma alla fine sei riuscito a goderti il trionfo di Evenepoel alla Vuelta?

«Certo. Lui ha vinto ma il percorso lo abbiamo costruito assieme, abbiamo fatto 3 mesi di condivisione, nella stessa camera, quindi l'orgoglio per averlo accompagnato è stato tanto. Poi, ovviamente, il numero l'ha fatto lui, ma parliamo di un talento straordinario. Ha vinto Liegi, San Sebastian, Vuelta e Mondiale, solo un fuoriclasse può riuscirci».

Cosa ti ha impressionato di lui?

«È una macchina da guerra. Nel ciclismo ha una concentrazione impareggiabile, non sgarra di una virgola. Ha talento sì, ma lo coltiva ogni giorno lavorando con una meticolosità impressionante per un ragazzo della sua età».

Quanto è difficile rimanere al top in questo sport?

«Molto, ormai siamo sempre al limite. Ogni volta che esci hai il timore di trovare qualcosa che non va, che le sensazioni non siano le migliori, che ci sia qualcosa che ti freni. Allenarsi, fare i carichi di lavoro, è la cosa più semplice, è tutto il resto che può risultare pesante. Si dice che il ciclismo sia ormai esasperato, beh è vero. Dieta, ore di sonno, ecc.., tutto è monitorato, qualsiasi dettaglio può davvero fare la differenza, e poi ci sono pressioni e aspettative. Non facciamo certo una vita normale. Ma per ora mi piace, è la strada che mi sono scelto, ma lo stress ammetto di sentirlo».

È sempre stato così o lo hai avvertito maggiormente negli ultimi anni?

«In Androni ero uno degli uomini più rappresentativi e la squadra mi chiedeva di fare risultato, ma questo peso lo sentivo meno. Ora invece corro in una squadra che ha l'obiettivo di vincere sempre, comunque e ovunque, ed è diverso. Anche perché negli ultimi anni il livello del gruppo si è alzato sensibilmente, d'altronde si vanno a cercare talenti in ogni angolo del mondo».

Un mental coach può aiutare a sopravvivere alla pressione?

«La squadra ha un mental coach belga, ma nella gestione dello stress e pressione quotidiana trovo fondamentali i miei affetti di tutti i giorni, fidanzata, famiglia, amici e preparatore, fermo restando che alla fine sei tu a dover fare i conti con la tua testa. Dipende dal carattere di ognuno. Io, per esempio, invidio molto quei corridori che magari stanno andando piano o sono in scadenza di contratto eppure sono sereni, non si fasciano la testa, forse perché vivono il ciclismo come una fase della loro vita destinata prima o poi a terminare. Io invece sono nervoso e ansioso anche quando magari potrei non esserlo perché nessuno mi sta pressando. Come dicevo, tocca fari i conti col proprio carattere».

Alle corse non si può più andare per allenarsi…

«Altroché. Se non sei al top ti stacchi facilmente da un gruppo di 50 corridori. Fino a qualche stagione fa alla prima accelerazione in salita si rimaneva in 20, ora in 60. A Maiorca ho espresso valori ottimi per restare con 20-25 corridori, ero con Alaphilippe e Almeida giusto per citarne due, ma Goossens che ha vinto è davvero andato fortissimo, penso sia stata una delle corse più dure che abbia fatto in tempi recenti e i watt sono lì a dimostrarlo. Arrivano tutti questi ragazzi che a 22 anni sono già al top del loro potenziale, sono praticamente dei robot, ma io dico che devono fare attenzione perché i robot possono guastarsi. D'altronde perché di 50 ragazzi che passano ogni anno sentiamo parlare dei soliti 3-4? Gli altri dove sono? Non fanno a tempo ad adattarsi al professionismo che son già bruciati. Per quanto mi riguarda sono contento di essere nel mezzo tra la vecchia e la nuova generazione e aver avuto modo di crescere con più calma. Ma sono convinto che nel giro di qualche anno si tornerà a rivalutare il percorso di crescita di questi ragazzi, perché meritano di avere più tempo per maturare».

Parlando di step, sei in vista dei 30 anni. A che punto della carriera ritieni di essere?

«Qualche soddisfazione me la sono già tolta, non mi sono mai reputato un fuoriclasse, ma finché la voglia di andare in bicicletta e faticare sarà questa andrò avanti con grande convinzione. Sono competitivo e questa è la cosa principale. Certo, è bello vincere, ma è molto più difficile. Quando i velocisti mi staccheranno in salita sarà il momento di farsi da parte».

Capitolo Giro d’Italia: Remco può davvero vincerlo?

«Sì! Coi valori espressi alla Vuelta può vincere anche il Giro, o di certo non scendere dal podio. Durante la prima settimana se la sarebbe giocata anche con i migliori del Tour de France. Non è solo questione di matematica e watt ovviamente, anche perché al Giro c'è un po' più di stress e un po' più di tatticismo, però insomma le gambe per vincere le ha. Temo però una cosa...».

Cosa?

«Che prenda la Maglia Rosa il primo giorno! A quel punto saranno cavoli amari per noi compagni di squadra (ride, ndr). Lui è uno a cui piace partire a mille, ma secondo me dovremo vedere bene come gestirci tatticamente, fermo restando che non gli diremo certamente di andare piano a cronometro. L'importante è avere la maglia a Roma».

Avrai un po’ di spazio per le tue ambizioni quest’anno?

«Al Catalogna avremo la squadra che più o meno poi andrà al Giro, faremo una sorta di prova generale. Nei Paesi Baschi invece dovrei avere un po' più spazio per provare a fare la mia corsa. Preparerò il Giro come se dovessi vincerlo e così faranno tutti i miei compagni, perché se Remco dovesse avere problemi, e ovviamente spero di no, dovremo farci trovare pronti per andare a caccia di qualche tappa. Se cominci a pensare che sei solo un gregario, per me, è la fine».

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